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FRANCESCO MICCI
IL CIBO FA LA FELICITA’

Il Cibo fa la Felicità Francesco Micci
IL CIBO FA LA FELICITA’
SCOPRIAMO IL LEGAME PROFONDO TRA NUTRIZIONE E GIOIA
Il Cibo fa la Felicità Francesco Micci
INDICE
PREMESSA...................................................................................................... 1
IL CIBO È IL MIO AMICO PIÙ CARO ...............................................................8
AD OGNUNO IL SUO CIBO ............................................................................10
LA RIVOLUZIONE ALIMENTARE......................................................................13
I PARADOSSI DEL CIBO .................................................................................23
TORNA AD AMARE TE STESSO......................................................................37
CIBO PER IL CORPO: LOCALE, FRESCO STAGIONALE, INTEGRALE ..........41
IL CIBONON È CHIMICA È ENERGIA...............................................................49
CIBO PER LA MENTE E IL CUORE...................................................................56
CIBO PER L’ANIMA...........................................................................................59
CIBO E FELICITÀ ..............................................................................................62
LA MIA VITA E IL CIBO......................................................................................66
Il Cibo fa la Felicità Francesco Micci
Premessa - 1
“Mangiare è uno dei quattro scopi della vita… quali siano gli altri tre, nessuno lo ha mai saputo” (Proverbio cinese)
Il cibo è un elemento determinante per la nostra felicità! Si hai capito bene, c’è un legame profondo tra il cibo che mangiamo e la nostra felicità.
Non ci avevi mai pensato? Ti sembra strano ed esagerato? Prova a riflettere sul fatto che il cibo non nutre solamente il nostro corpo, ma anche la nostra mente, il nostro cuore e oserei dire anche la nostra anima…contribuisce alla nostra salute in senso ampio.
Il cibo ci “costruisce”, ogni giorno, alimenta ogni singola cellula del nostro corpo non solo di componenti chimiche, ma di energia, di emozioni, è specchio del nostro stato fisico, dei nostri pensieri del nostro stato d’animo.
Possiamo dire che siamo veramente ciò che mangiamo e che d’altro canto mangiamo proprio ciò che siamo in un circolo continuo di scambio e flusso energetico.
Non mangiamo delle freschissime fragole appena colte o dell’ottimo salmone dei mari norvegesi, non beviamo vino della Bourgogne o una sostanziosa Guinnes nera come il petrolio.
In realtà mangiamo e beviamo felicità o tristezza… gioia o dolore, sta solo a noi scegliere cosa vogliamo mangiare e di conseguenza ciò che vogliamo essere.
Oggi nell’era della rivoluzione alimentare, dominata dal supermercato e dalle diete, siamo molto lontani da questa consapevolezza, abbiamo perso il contatto con la storia del cibo e con la nostra storia.
È fondamentale riprendere questo dialogo, tornare a nutrire tutti i livelli del nostro essere e scoprire che il cibo fa veramente la felicità: questo è il percorso che voglio fare insieme a te.
Iniziamo con l’immaginare la sensazione di toccare una mela dell’albero dell’orto del nonno, dove giocavamo da bambini, ancora bagnata dalla rugiada mattutina che rende umide le nostre mani, di scivolare con i polpastrelli sulle sue perfette rotondità, di staccarla con delicatezza e amore percependo la sua resistenza a “morire”, a lasciare il ramo che si protende, tintinnando, verso di noi. Di stringerla mentre con il suo volume ci riempie la mano come un rigoglioso seno, di portarla dolcemente alla bocca, già immaginando il senso di fresco che quel dolce morso ci darà sulle labbra scivolando poi sulle gengive, quel turgido sentimento di pulito sui denti e il sollievo che ne deriverà per il nostro cuore, pensando che proprio il nonno l’aveva piantato con tanto amore e che ancora vive in un certo modo dentro quella mela. E quale sollievo sarà per la nostra anima: quella mela contiene nel piccolo, è un riflesso dell’energia che anima e muove l’intero universo con cui ora ci sentiamo in armonia.
Che meraviglia e che poesia, in questo incontro semplice incontro con una mela appena colta!
Non si può negare che il cibo abbia qualcosa di “sacro”. Nonostante ciò, negli ultimi decenni ci siamo abituati a considerarlo come qualcosa che si misura in proteine, carboidrati, vitamine… che vanno meccanicamente a soddisfare il nostro fabbisogno medio, sulla base di consolidate statistiche mediche in relazione ad elementi standard quali l’età, il sesso, l’attività fisica... Sostanze chimiche che una volta ingerite si trasformano “inesorabilmente” in calorie, vero e proprio spauracchio per le nostre bilance. Molto spesso, la nostra competenza sul cibo, si limita ad una conoscenza acritica di tabelle caloriche.
Nella nostra società, paradossalmente, nessuno si occupa veramente di educazione nutrizionale. La famiglia se ne occupa solo e se, c’è all’interno una particolare cultura (dettata da interesse o vissuto personale), altrimenti si limita a perpetuare le tradizioni acquisite. La scuola non se ne occupa se non per poche ore di superficiale teoria.
Eppure è un argomento di primaria importanza, di grande respiro, è un tema fondamentale che ci riguarda come individui e come società, che riguarda la qualità della nostra vita, presente e futura.
Non a caso prolifera sempre più numerosa una pletora di voci diverse con tante teorie e diete tra le più disparate e fantasiose, che si affanna per attirare l’attenzione dei tanti bisognosi, molto spesso con la finalità principale di fare business e non con l’obbiettivo di nutrire o tutelare la salute umana.
Le nostre abitudini alimentari si sono profondamente trasformate. Siamo ormai abituati a consumare cibo nel fast food di turno, in piedi, in fretta, con i pensieri che corrono al prossimo gesto che dobbiamo fare una volta finito il cibo o addirittura nello stesso momento in cui mangiamo già lo stiamo facendo, completamente alienati dal cibo stesso…
Sembra che il cibo non sia degno a volte nemmeno di uno sguardo, di un ascolto… che non conti più la sua sacralità e la sacralità del momento in cui, consumando cibo, ci dedichiamo finalmente a noi e alle persone che amiamo.
Siamo arrivati a consumarlo in fretta anche tra le mura di casa, vicini ai nostri cari ma in silenzio, con la televisione accesa ad alto volume, senza una parola di apprezzamento per quelle “creazioni” che qualcuno ha realizzato con impegno, masticando veloci, con la voglia di finire in fretta e alzarsi prima possibile da tavola per andar a fare altro.
Come possiamo esserci scordati che il cibo è così ricco di messaggi da dare, è coì pieno di significati da celebrare, che è per natura il sigillo di ogni vero momento di socialità in tutti i paesi e le culture del mondo?
Come ci siamo potuti sganciare da un percorso che è parte di noi da sempre, per cui il cibo è un nostro “amico inseparabile” fin dai primi anni della nostra vita e ci accompagna senza sosta e con una grande dose di pazienza in tutti i passaggi essenziali del percorso esistenziale?
Il cordone ombelicale è il primo “catering” che ci nutre di materia e affetto. Il latte materno è il primo contatto profondo con il mondo esterno e la vera consolazione dopo il trauma del parto, che stimola da subito lo sviluppo di diversi ambiti sensoriali (dalla vista, al tatto, dall’olfatto al gusto) e ci avvia in senso ampio verso la nostra conoscenza del mondo e della vita.
Il cibo continua ad accompagnare la nostra crescita fisica e psicologica, in relazione alla completezza del pasto che la mamma ci prepara la sera, alla salubrità dei prodotti che sceglie con cura, ai piatti dove li unisce con sapienza ed equilibrio, al rapporto tra cibo e appagamento delle nostre inquietudini di bambino a cui abbiamo dato risposta con un bel cucchiaio di Nutella.
Il cibo diventa gioco e manipolazione di sostanze organiche, è la pappa che spiaccichiamo sul tavolo, è il pomodoro che tiriamo a nostro fratello più grande quando ci importuna, è il primo pan cake senza forma che prepariamo con la mamma, giocando al piccolo chef, è la carota che usiamo come naso per il nostro pupazzo di neve. È simbologia e proiezione delle immagini del nostro essere bambino, della nostra voglia di gioco, di sogno e di scoperta.
Il cibo è conoscenza del mondo esterno negli aspetti naturali, la frutta e la verdura nei campi, gli animali, i pesci del mare … una gran parte di tutto ciò che vediamo intorno a noi è o può diventare cibo, in un rapporto dinamico evolutivo, all’interno del meraviglioso ecosistema che è il nostro pianeta.
Il cibo è cultura, le tradizioni alimentari sono uno degli elementi di identificazione più forte di ogni popolo, è simbolo, accompagna le feste, le ricorrenze e i rituali. Il cappone di natale o la torta di pasqua sono elementi fondamentali di celebrazione di quei momenti. Il cibo è ciò che, più di ogni altra cosa, crea un forte senso di appartenenza con il proprio ambiente, con la sua storia e il suo percorso socio-culturale inteso in senso ampio.
Il cibo è consapevolezza dell’abbondanza e della carenza: tutti i bimbi hanno bisogno di mangiare per crescere, ma nel mondo alcuni bimbi sprecano, altri non hanno la possibilità nemmeno di mangiare.
Il cibo è piacere, gioia, accompagna sempre i momenti di festa, di accoglienza Nei compleanni si mangia, nelle ricorrenze si mangia, negli anniversari si mangia, nei battesimi si mangia, nei matrimoni si mangia… il cibo è energia, precede e prepara altre azioni dell’uomo: non si può lavorare bene, correre bene e perfino dormire bene se non abbiamo mangiato bene.
Il cibo è storia: come sono belli e vivi i ricordi di quando mangiavamo la marmellata di mirtilli a cucchiaiate, prendevamo il Bacio Perugina dal vaso in ceramica nascosto nel cassetto della sala, mangiavamo le ciliegie dall’ albero del vicino, cenavamo con i cugini nel tavolo dei bambini al pranzo di Natale o andavano dal fruttivendolo per chiedergli di regalarci un’albicocca. O quando andavamo nel bosco con il papà a cercare funghi o castagne. Che ricchezza di vita, emozioni e ricordi intorno al cibo!
Il cibo è “madre”, ci nutre, ci supporta, ci accompagna, ci “educa”, pone le basi di un rapporto immediato, sano e consapevole con se stessi, con l’alimentazione, con l’ambiente circostante vicino e lontano (nei suoi aspetti naturali e sociali) che rappresenta elemento fondante dell’equilibrio psico fisico e sociale di un individuo adulto.
Il cibo è coccole, è cura di sé e autostima. Quando ci si siede di fronte ad una cioccolata calda con panna, o si affetta un prosciutto di pata negra e lo si avvicina ad un pane caldo, quando si gratta un tartufo bianco appena trovato su un piatto di fumanti tagliatelle, ci si prende cura con il cibo, come strumento privilegiato, non solo del nostro corpo, ma anche delle nostre emozioni e soprattutto della nostra anima, la si accarezza con una tenerezza fatta di forme, di colori, di odori, di gusto, di tradizioni, di ricordi... di tutto.
Il cibo è amore, è dono e comprensione, è convivialità e gratitudine, è gioco erotico e sex appeal, il cibo è afrodisiaco e precede, accompagna e segue la relazione sessuale, il cibo è gusto e simbolo che si lega allo scambio d’amore.
Il cibo è… Vita!
IL CIBO È IL MIO AMICO PIÙ CARO - 8
"Non riesco a sopportare quelli che non prendono seriamente il cibo.'' (Oscar Wilde)
Appare chiaro come il cibo è il nostro amico più caro e ci accompagna in ogni momento significativo della nostra vita. Ne abbiamo costantemente bisogno, non ne possiamo fare a meno, se ci manca ci sentiamo male, siamo consapevoli della sua importanza.
Quando arriva, non ci riempie solo lo stomaco, ci rasserena, ci consente di pensare, di riposare, di sognare: ma quale amico ha questo potere?
Possiede la capacità di farci soffrire per la sua mancanza e farci gioire per la sua presenza, siamo legati con lui a doppio filo.
È il primo contatto profondo con il mondo esterno, il latte materno diventa da subito non solo nutrimento ma anche calore, affetto e amore.
Quando da latte si trasforma in pappe morbide e saporite la sua generosità si conferma. Come è bello metterci le mani, far uscire la pappa dalla bocca e farla colare sopra al bavagliolino con quel senso di abbondanza che sa tanto di gioia. Noi diventiamo più cicciotti e anche lui cresce con noi, diventa più solido, più consistente, da solo cibo diventa anche gioco.
Poi arriva la pasta al pomodoro, il supplì di riso, la polpettina di carne, il muffin allo yogurt e persino le crêpes con la marmellata di fragole.
Ci sono tutti i colori, i sapori e gli odori che un bimbo possa immaginare nelle proposte di una mamma che ama la cucina. Una vera meraviglia per i sensi. Il nostro amico cresce e sviluppa la sua personalità, prende forme e cromatismi diversi, si forgia e si mescola nelle più fantasiose e originali combinazioni, con il solo obiettivo di farci felici e farci crescere sani.
Cambia il suo aspetto a seconda delle stagioni, per deliziarci con nuove esperienze e nuove meraviglie. E quando inizi a festeggiare, lui è sempre il primo vicino a te, non manca mai, per fare il meglio, per stupirti e stupire: torte giganti di compleanno, pranzi di comunioni, cresime e matrimoni, sagre e fiere, non c’è festa senza di lui.
E quando inizi a viaggiare diventa compagno leale di viaggio, introducendoti a nuovi mondi e a nuove culture che interpreta in prima persona, a cui dà voce, con i suoi aromi e le sue atmosfere nuove e affascinanti. Ti dà il benvenuto attraverso nuovi rituali, nuovi volti, dai tratti e la lingua diversa, ti lascia e si lascia assaporare per farti entrare dolcemente, con piacere, in un nuovo contesto, diverso, ma che vuole essere accogliente, ti accompagna nella scoperta.
E quando lo conosci bene, ormai da tanti anni, e inizi a diventare esperto e raffinato, anche lui si evolve con te, lo puoi trovare in combinazioni nuove sempre più gourmet e creative, frutto di lavorazioni particolari grazie alle mani sapienti di chi lo sa trattare ma che è sempre lui ad ispirare… vuole continuare a dare e darti il meglio, vuole farti scoprire le suggestioni speciali che la competenza può far emergere.
E se veramente lo ami, come il tuo migliore amico, si lascia conoscere fino in fondo, penetrare, si lascia manipolare, si pone al tuo servizio, ti permette di apprendere l’arte della cucina e del mangiare.
E anche quanto sei malato non ti abbandona, ti percepisce, ti sente, si alleggerisce e si semplifica per aiutarti a depurare il tuo organismo, o concentra il suo sapere, le sue energie per trasmetterti la vitalità in più che ti serve per la guarigione.
Ma un amico così che ti comprende, ti segue, si adatta, si plasma su di te, ti stupisce… ma dove lo trovi…?
AD OGNUNO IL SUO CIBO - 10
“La vita è troppo breve per bere vini mediocri" (Johann W. von Goethe)
Il cibo è uno degli aspetti più pensati e dibattuti. La parola Food è una delle più cliccate sulla rete. È uno degli argomenti più trattati da riviste, blog e programmi televisivi e sempre di più anche nei discorsi quotidiani di ognuno di noi.
Parliamo di ciò che amiamo mangiare, ci ciò che ci fa bene e di ciò che ci fa male, dell’ultimo ristorante che abbiamo scoperto, della dieta che stiamo sperimentando e di quanto panettone abbiamo mangiato a Natale, tramutatosi drammaticamente in peso.
Ci sono mille teorie sul cibo, ognuno di noi ha in fondo la sua, mille scuole di pensiero più o meno ufficiali, mille diete e ogni giorno se ne creano di nuove in qualche parte del mondo.
Ogni giorno c’è qualche “specialista” o qualche ricercatore, o qualche chef famoso, o qualche rivista di scienza o di alimentazione che ci dice cosa è giusto mangiare, per essere sani ed in forma, ci descrive l’ultima invenzione relativa la cibo.
Ci sono diete specifiche per il diabete e per l’ipertensione, per l’obesità o l’inappetenza, quelle basate sui monoprodotti e quelle sulla nutrizione cellulare.
È in questa ricchezza di proposte e informazioni che ognuno di noi crea le sue convinzioni su cui basare il nostro modello alimentare. Basta cambiare l’angolo visuale, il punto di vista o il percorso di studi, o l’esperienza personale, la provenienza familiare, la condizione economica e sociale per constatare una variabilità significativa anche rispetto all’idea e al valore attribuito al cibo.
Ognuno di noi è un “microcosmo alimentare” dotato di un suo “bagaglio teorico ed esperienziale”.
Accade spesso che in una parte del mondo hanno scoperto che quel cibo è il segreto della felicità mentre dalla parte opposta, in quella prestigiosa università, hanno scoperto esattamente l’opposto.
È proprio il caso di dire essendo ogni individuo unico ed irripetibile inevitabilmente si accompagna ad un cibo unico ed in irripetibile in termini di tradizioni, convinzioni, irrinunciabili abitudini.
E questa ricchezza di cultura gastro-alimentare si costruisce pezzo a pezzo, mattone a mattone, partendo dai racconti della nonna per poi passare a quelli della mamma a dai consigli del pediatra a quelli del nutrizionista, dai suggerimenti della zia a quelli della vicina di casa, dalle scoperte dall’amico chef a quelle raccontate dal telegiornale o dalla rivista specializzata di turno.
E così si crea il legame tra il pensiero e l’azione, tra la teoria e l’esperienza di ognuno da cui parte e si consolida prima l’attitudine e poi l’abitudine alimentare, uno degli elementi più importanti di identificazione, equilibrio e stabilità della vita di tutti i giorni.
Si può quindi dire “ad ognuno il suo cibo”, nel senso che non c’è niente di più personale dei gusti e delle abitudini alimentari uniche e diversissime da quelle degli altri.
Il cibo è elemento fondante del rapporto tra uomo e ambiente. In un contesto così ricco, in questo incontro tra la complessità e la meraviglia del cibo da una parte e dell’uomo dall’altra, non ci può essere altra regola che quella che ogni uomo identifichi la propria unica regola.
Che ognuno impari a combinare nel modo migliore e personalissimo, le sue conoscenze, le sue credenze e soprattutto le sue sperimentazioni e le sue esperienze imparando a dosare il cibo come fonte di nutrimento, salute e benessere allo stesso tempo. Il cibo diventa così specchio di ogni uomo e del suo vissuto e ogni uomo è specchio del cibo che utilizza. Il cibo diventa il punto di partenza per migliorare la propria condizione, per evolvere e per scoprire, ma anche allo stesso tempo punto di arrivo, seppur dinamico, di raggiungimento di armonia ed equilibrio.
Ad ognuno il suo cibo, in altri termini, non vuol dire altro che, ad ognuno la sua vita, quella che sogna, che desidera e che può veramente realizzare.
LA RIVOLUZIONE ALIMENTARE - 13
“Quando l’ultimo albero sarà abbattuto e l’ultimo fiume avvelenato e l’ultimo pesce pescato, ci renderemo conto che non possiamo mangiare il denaro” (Proverbio indiano)
Proprio perché il cibo che mangiamo è il frutto del nostro percorso di vita e allo stesso tempo lo specchio di ciò che siamo, appare difficile immaginare che ci possano essere dei cibi e delle diete che vadano bene per tutti e addirittura in tutte le parti del mondo. È come immaginare gli uomini come delle macchine, dove gasolio o benzina vanno bene per tutte, in quanto progettate con un motore che ha lo stesso esatto funzionamento.
Peccato che ogni uomo sia esattamente diverso, unico ed irripetibile ed abbia dei delle emozioni e dei bisogni, in linea generale uguali (tutti devono mangiare), ma se si entra nei particolari in realtà tutti profondamente diversi.
Nella millenaria evoluzione umana, il cibo forse più di ogni altra cosa, ha marcato le differenze tra le diverse aree del mondo, tra le diverse culture, tra i diversi sistemi socio-economici locali, tra le diverse famiglie, tra i diversi individui.
Nonostante ciò, è uno degli ambiti in cui più forti e veloci sono stati i cambiamenti, dove la massificazione e l’omologazione ha avuto un effetto più evidente, dove la capacità di controllare e gestire la realtà da parte di gruppi ristretti, ha dato i suoi risultati più interessanti e li ha resi fruibili in tempo reale ad un gran numero di persone.
L’industria alimentare ha voluto e ha saputo rovesciare gli elementi naturali di base, annullare la differenza tra ogni individuo, ha saputo “corrompere” la sua unicità per dire che siamo tutti “uguali” e che possiamo tutti adottare le stesse abitudini alimentari in ogni parte del mondo al di là della nostra cultura, tradizioni, condizioni climatiche, per entrare tutti a far parte di un enorme mercato globale.
Questa imponente operazione culturale ed economica ha avuto un risultato che solo 50-60 anni fa era difficile solamente immaginare.
Questa rivoluzione ha usato con saggezza due grandi attori, forti e dotati di fascino, efficienza e del grande dono della novità: il supermercato e le diete.
Con il supermercato, l’industria globale ha creato intorno al cibo un’enfasi speciale: ha creato un vero e proprio “tempio del cibo”, un luogo mitico e fantastico che ha pian piano sostituito non solo i negozi tradizionali, ma anche le piazze delle città ed oserei dire anche le chiese. Non è un caso che, gran parte delle più importanti opere architettoniche contemporanee sono centri commerciali, è ciò che lasceremo ai posteri.
Nelle sue versioni più evolute, riunisce in un solo ed unico luogo tutti gli elementi che prima facevano parte, insieme al cibo, di un complesso e articolato sistema di azioni e relazioni. La sua forza è nel rappresentare non solo una sintesi innovativa di business e di sistema organizzativo e logistico, ma anche di comunicazione, e soprattutto di vero e proprio stile di vita, a cui si legano ovviamente i consumi.
La popolazione del mondo aumenta ed ogni giorno nuove persone richiedono cibo, i bisogni mutano e diventano più sofisticati, cresce l’interesse per cibi diversi e particolari, il viaggio ci porta alla scoperta di prodotti esotici che poi vogliamo ritrovare sulla nostra tavola. Si aprono le porte alla creazione di nuovi modelli alimentari a cui dare risposta attraverso la continua creazione di nuovi cibi richiesti da un numero crescente di consumatori.
Diventa necessario adeguare i sistemi di produzione e di distribuzione, in grado di realizzare in tempi sempre più rapidi, cibi sempre più manipolati, facili da riprodurre in grande scala, conservabili, in modo da essere distribuiti facilmente su mercati sempre più vasti, veloci da consumare e con margini di profitto sempre più elevati. È un grande, grandissimo mercato in continua crescita quantitativa e qualitativa, un affare eccezionale.
Sono cibi appositamente pensati per riempire i banconi dei supermercati, con un’attenzione paritetica se non superiore alla forma, rispetto alla sostanza, più alla confezione che non al valore nutrizionale, alla qualità estrinseca piuttosto che a quella intrinseca. Sono ben presentati ed attraenti per essere scelti, rappresentano Brand che rassicurano, sono destinati a colmare con facilità i nostri frigoriferi e le nostre dispense.
Sono pensati per alimentare le cucine di format di ristorazione Fast Food di fama internazionale, in grado di sviluppare fatturati a 10 cifre con gli stessi identici prodotti, le stesse identiche ricette in contesti economico culturali assolutamente diversi.
I segreti di questa rapida vittoria, di questa conquista planetaria, di questa food-globalization, sono il marketing e la comunicazione. Strumenti legati alla conoscenza, alla capacità di comprendere ed influenzare.
Attraverso i media e sempre di più i social media, più capillari e penetranti, ci propongono, con estrema naturalezza , come prodotti di qualità, cibi che spesso non lo sono affatto: animali cresciuti in batteria con l’aiuto di ormoni, prodotti coltivati con utilizzo di pesticidi e fertilizzanti cancerogeni, trasformati fino a perdere ogni elemento nutritivo, con aggiunta di componenti aggressivi, coloranti e conservanti, a volte sottoposti a processi di irradiazione e conservazione che ne modificano fortemente le caratteristiche.
Ci vengono proposti come eccellenze, come portatori di gusti eccezionali e perfino come elementi sani, associandoli, nelle pubblicità, ad elementi positivi nell’immaginario collettivo (la natura, la famiglia, la bellezza) per stimolarne l’acquisto: messaggi che non fanno che creare, grazie alla protezione di brand forti e rassicuranti, una forte confusione tra i consumatori che, sottoposti a diversi stimoli, hanno difficoltà a scegliere e chiaramente scelgono alla fine la via più facile, quella a portata di mano e sempre generosa di offerte speciali ogni settimana.
Il modello della grande distribuzione nasconde, infatti, un paradosso. Se da un lato ti garantisce una possibilità di scelta molto ampia, ti apre le frontiere del possibile, grandi spazi di libertà, ti promette la possibilità di conoscere e sperimentare, dall’altro cela l’insidia di un risultato diametralmente opposto.
La grande possibilità di scelta, la quantità di cibi presenti, a volte estranei alla nostra tradizione, disorienta e spinge a comprare sempre in modo ripetitivo le stesse limitate cose, i cibi sono tanti ma in realtà in gran parte molto simili, tutti provenienti da uno stesso sistema produttivo, lavorati e impoveriti, con scarso potere nutritivo. L’abbondanza visiva, l’abbondanza dei banconi e dei carrelli si trasforma in carenza di principi nutritivi, in difficoltà alimentari e anomalie.
E ciò non riguarda solamente il nutrimento fisico ma anche quello psicologico e sociale tipico dei sistemi distributivi tradizionali, oggi sostituiti da una meravigliosa accoglienza che lascia però il vuoto interiore a fronte del carrello pieno. Il sistema di acquisto veloce e compulsivo, la fila in silenzio alle casse, la corsa fuori verso l’auto e poi via verso casa, il riempimento disordinato del frigorifero... la sensazione è quella di una certa alienazione nell’atto dell’acquisto.
È un percorso che, se da un lato dà la percezione di facilità e sicurezza, dall’altro non sembra regalarci quel senso di appagamento interiore che ci dava la visita alle vecchie botteghe. Li c’era un prendersi cura di sé, il rinnovo di un rituale, che il supermercato ha cercato di sostituire senza riuscirci.
E l’alienazione continua nell’atto del consumo dove spesso per mancanza di tempo e di cultura, si tira fuori dal frigorifero e si mangia in modo abbastanza casuale.
Le difficoltà, fisiche e psicologiche che tale nuovo stile inevitabilmente procura, aprono lo spazio ad un nuovo bisogno trasformato in trend e da trend in business.
La confusione alimentare genera squilibri a cui rispondere con una gamma di diete veramente fantasiose che arrivano a proporre, in alcuni casi, di mangiare un solo prodotto.
Non a caso sempre di più proposte da imprese multinazionali dotate al loro interno da laboratori medici, equipe di ricercatori e nutrizionisti e appoggiate dall’esterno da prestigiose università e testimonial d’eccellenza, fino ad arrivare a qualche premio Nobel, sono sempre di più vendute anche in farmacia per consacrarle come strumenti “ufficiali” di prevenzione e cura della salute.
La dieta ha un qualcosa di rassicurante e sofisticato: ti prendi cura in modo diverso e particolare grazie ad un gruppo di esperti che ti garantisce la protezione della scienza e che non ti lascia mai solo. Perché da solo hai fallito, non sei riuscito a mantenerti in forma, non hai saputo tutelare la tua salute, vivi una profonda frustrazione e sei alla ricerca di soluzioni.
Un numero elevato di persone in difficoltà è facile preda di chi promette soluzioni facili e alla portata di tutti, dove non siamo noi a prendere in mano la nostra salute ma sono loro a dirci che cosa dobbiamo fare, perché hanno scoperto una formula miracolosa, valida per tutti ma allo stesso tempo “pensata solo per te” assolutamente personalizzata perché “sei unico e importante”.
Non c’è dubbio che le diete, specialmente quelle “più avanzate” partano da presupposti e da un’analisi dell’uomo sensata, da una visione meno meccanica e più olistica, da una base di ricerca scientifica, ma si contraddicono poi sulla ricetta finale, sulla proposta miracolosa, sui cibi proposti, quasi sempre orientati a creare dipendenza e non salute.
Dal nostro punto di vista, spesso non sappiamo nemmeno di cosa sono fatti quei particolari alimenti, o non comprendiamo il perché delle combinazioni proposte e non ci è dato di saperlo, quello è il “segreto” dell’azienda, ma i testimonial pagati dall’azienda e magari ancora meglio la nostra amica ci ha detto che ha avuto degli ottimi risultati, che si sente benissimo, ed è questo ciò che conta.
Spesso si tratta di diete basate su alimenti conservati, completamente sbilanciate e fonte di forte stress per l’organismo, che non fanno che allungare le liste di persone malate, e a questo punto più scoraggiate, magari arrivate alle 3-4 dieta diversa
Quasi sempre, dietro allo slogan dichiarato della salute si nasconde il prioritario e mal celato miraggio della perdita di peso che è il flagello dei nostri tempi: gli obesi o quelli che si sentono tali o anno paura di diventarlo sono i primi entusiasti fruitori delle diete che propinano per tutti effetti miracolosi ed estremamente veloci.
È chiaro che se non mangiamo, o mangiamo cibi privi di elementi nutritivi, accade il “miracolo” di perdere 5 kg in 10 giorni ma a quale prezzo? Come ci sentiremo dopo 1 mese? Come saremo dopo 6 mesi? Se al veloce percorso esteriore non si accompagnerà un corrispondente percorso di crescita interiore?
Ci siamo dimenticati, che ognuno di noi, reagisce fisicamente e psicologicamente in modo diverso e che l’organismo ha le sue regole e i suoi tempi?
La dieta in fondo ci propone la “formula magica” attraverso un prodotto standard ma adattabile di diversi individui in base all’incrocio di dati e di valori, facile da vendere ad un numero più alto possibile di consumatori con profitti scalabili e crescenti. La dieta considera gli uomini come una massa indifferenziata in grado di assorbire principi generici ed applicarli pedissequamente, con la promessa di risultati strabilianti raggiunti in poco tempo.
La rivoluzione alimentare, questo nuovo modo di “gestione globale del cibo” non si ferma all’impatto sulla salute di ognuno di noi ma va ben oltre, impattando anche gli equilibri del nostro contesto.
I sistemi socio-economici locali che da sempre hanno trovato nel modello di produzione e distribuzione alimentare, un fondamentale, quotidiano punto di riferimento, non reggono il confronto. La spesa dal contadino, la visita alla piccola bottega di prossimità, non erano soltanto un ottimo metodo di cura e sostegno della propria salute, ma anche il metodo per dare sostentamento economico alla comunità locale e solidità ad un insieme di microrelazioni tra le persone, che rafforzavano il senso di appartenenza.
Il supermercato, con scintillanti banconi di metallo, illuminati a giorno da lampadine al neon, ricchi di prodotti colorati e sistemati in modo tematico e soprattutto abbondanti, ha un innegabile appeal. Il marketing sa che uno dei problemi dell’uomo è il senso di scarsità, la paura di rimanere “senza”. Il supermercato promette abbondanza assoluta e permanente, prodotti senza fine e tutti presenti in un posto solo. Non a caso si premura di avere i banconi sempre pieni zeppi e che tristezza vedere un supermercato con i banconi dove mancano dei prodotti, ti viene voglia di uscire subito!
Al supermercato puoi risparmiare il tempo che non hai più da dedicare a te stesso, puoi fare in fretta e migliorare la tua vita, puoi risparmiare i tuoi soldi grazie alle economie di scala: è un sogno che può valere senza problemi la chiusura di un tessuto di botteghe di un intero centro storico!
Il giro dei negozietti, parlare con il titolare che ti ascolta, fare una battuta con il vicino di casa, scegliere la frutta che ti piace di più, magari assaggiandola, quella che ti ricorda quando eri bambino e la coglievi dall’albero vicino a casa tua, che tuo padre aveva piantato e fatto crescere con cura. Questo “nutrimento” più ampio della persona che aveva una forte valenza psico-sociale, e un forte impatto sulla “felicità” del singolo, è purtroppo fortemente compromesso.
Puoi entrare armato di carrelli con design sempre più accattivanti (e di carrelli per i bambini in modo che siano distratti e intrattenuti e non limitino il volume degli acquisti dei loro genitori e da subito percepiscano come “familiare” ed inizino ad amare quel luogo) e conquistare il cibo. I tuoi occhi vengono riempiti e di conseguenza anche il tuo carrello.
Guai ad uscire con un carrello vuoto, hai comprato solo questo? Perché il bello del supermercato è che nel carrello ci sono tante cose che non servono. Hai la licenza, per una volta, di andare oltre “l’ordinario”, di urlare “crepi l’avarizia” e di comprare cose inutili e ridondanti, di “concederti un lusso possibile”. Peccato che tutto questo “ben di dio” se non lo mangi in fretta, si rovina, scade rapidamente, è facilmente deperibile ed ha una buona chance di andare tristemente a riempire i bidoni dell’immondizia.
Hostess in minigonna e operatori curati e sorridenti, ti propongono sempre cose nuove, salami interi, affettati, sotto vuotati e sproporzionati, provenienti da tutte le regioni o dall’estero, cibi pronti e già cucinati: che meraviglia!
Il supermercato non ti offre solo cibo ma anche tanto altro in più, una serie di “servizi”. C’è chi prepara, chi cucina per te, chi ti porta il cibo a casa. Non devi pensare ad “apprendere l’arte e metterla da parte” a conoscere il
cibo, la provenienza e la stagionalità, a saperlo scegliere, lavorare e cucinare, c’è chi pensa per te a fare tutto! D’altronde tu non hai più il tempo!
E tutto è disponibile in ogni momento, via le emozioni di assaggiare una primizia: pomodorini tondi e tutti uguali, fragole giganti e soffici sono disponibili 365 giorni su 365!
A rendere ancora più difficile la sopravvivenza dei sistemi di produzione e distribuzione locale, si aggiunge anche il proliferare voluto, di sofisticate norme di igiene alimentare. Definite con sigle incomprensibili, suggerite e scritte dalla grande distribuzione, per facilitare la sua avanzata prorompente, hanno messo “fuori legge” e fuori mercato produttori e distributori tradizionali, impossibilitati ad affrontare gli investimenti necessari ad adeguarsi alla nuova ondata di attenzione alla salute! Prodotti fatti con metodi tradizionali, di qualità e di grande gusto, come il formaggio di fossa, non sono più a norma, sono “pericolosi” e quindi non degni di occupare il loro posto negli scintillanti banconi occupati solo da cibi “sani e certificati”.
Da questa vittoriosa offensiva ne deriva che territori ricchi di punti di distribuzione non solo di cibo, ma anche punti di riferimento sociale, sono diventati come il deserto, con al centro una grande cattedrale luminosa.
I produttori più grandi rimasti in vita, devono produrre come “richiesto dal mercato”, cose belle da vedere, frutta gonfia e colorata, hanno dovuto cambiare i loro metodi produttivi, aumentare l’utilizzo di prodotti chimici ed esercitare una pressione accresciuta sui terreni e sui fattori di inquinamento per tenere il passo e non essere tagliati fuori, chiaramente pagati con prezzi sempre più bassi a vantaggio della distribuzione.
E non finisce qui, l’industria agroalimentare ha pensato, visto che ha fatto il deserto intorno a sé; di non lasciarci soli e di suggerire un nuovo modello di vita sociale e di fruizione del tempo libero, il supermercato, diventato Iper e Mall, ha facilmente sostituito le stesse cattedrali di un tempo: il supermercato è un nuovo tempio dove celebrare una nuova “religione”!
Anche piazze dei centri storici svuotate di negozi e attività, di mercati tradizionali, sono state facilmente sostituite con le “corti” (nome non casuale che rimanda a luoghi e sensazioni nobiliari, che ispirano elevazione della propria condizione) dei supermercati che ci accolgono con i loro ristoranti e fast food appartenenti in gran parte a gruppi internazionali che utilizzano prodotti non certo locali e stagionali e che non reinvestono i loro cospicui utili sul territorio, creano occupazione ma perlopiù precaria.
Non solo cibo e servizi ma anche intrattenimento e socialità. I supermercati diventano luoghi di incontro e di “culto”, di utilizzo del tempo libero pilotato e chiaramente orientato al consumo, che si estende a tutti i giorni della settimana, anzi nel fine settimana (tradizionalmente, nella nostra cultura momento di riposo e di attenzione alla famiglia o a se stessi) raggiunge le sue punte migliori di lavoro e fatturato: non c’è tempo per riposare, bisogna vendere, comprare, consumare. La visita al supermercato è diventata il “passatempo” preferito di molti nel week end, prima si andava a spasso sul corso del centro storico, oggi si va a spasso nelle gallerie dei centri commerciali.
“Sacro e profano” di nuovo a braccetto all’interno di quello che possiamo definire un bellissimo “luna park”, non a caso nel pensiero collettivo attrazione forte in quando eccezionale e rara.
Non si può negare che questo nuovo modello trova in parte fondamento in dei concetti sensati di razionalizzazione e di gestione, è comodo e offre dei servizi utili, ha dei prezzi competitivi e una grande scelta, anche io ne faccio uso come la gran parte di noi. È un ottimo business model e fonte di profitti sicuri per chi lo gestisce, ma è anche chiaro come abbia creato numerosi paradossi, abbia sconvolto e sostituito un sistema secolare di alimentazione, di gestione e approvvigionamento del cibo che aveva molto a che fare con la vita di ognuno di noi, con i suoi punti di riferimento, con la sua felicità.
I PARADOSSI DEL CIBO - 23
“Il piatto del giorno va bene, a condizione di sapere a quale giorno risale la sua preparazione” (Pierre Dac)
La rivoluzione alimentare sopraggiunta e l’incremento nell’utilizzo di prodotti manipolati e impoveriti che ne deriva, è fonte di diversi paradossi di cui il primo purtroppo è l’incremento del numero di persone che soffrono, frequentano medici ed ospedali con problemi di tutti i tipi, legati ad intolleranze, criticità alimentari, carenze che l’organismo non riesce a reggere, sempre più bombardato da elementi che poco hanno a che fare con la nutrizione.
La rassicurante visione per cui è “importante mangiare di tutto”, un tempo caposaldo della vecchia cultura contadina, (dove, essendoci poche risorse economiche e quindi carenza, bisognava con sofferenza rinunciare ad alcune cose che erano desiderate in quanto più rare e più costose) è stata ripresa ed utilizzata con successo con un’accezione e con finalità completamente diverse.
Qui il paradosso è che quel “mangiare di tutto” che ai tempi era composto dai prodotti locali disponibili in quantità limitata e che si riduceva a poche componenti essenziali, è diventato il simbolo in negativo di ciò che non si vuole più vivere. Non ci deve essere più carenza, niente deve mancare, ci deve essere abbondanza. I prodotti “poveri” simbolo della carenza sono stati in gran parte eliminati, sostituiti da una gamma molto ampia di prodotti disponibili, con in primis quei prodotti un tempo più rari, come la carne e il pesce, come naturale bisogno di compensazione.
Questi ultimi, sono diventati, con la crescita economica, il simbolo del benessere, ciò che non si poteva avere e che poi è diventato disponibile, una specie di status sociale che codifica la fine della miseria, il simbolo del consacrarsi di una nuova era, l’appartenenza ad una certa classe sociale. Eppure l’evoluzione del corpo umano, è stata accompagnata da cibo locale, composto, nella più parte delle aree del mondo da cereali, verdure e legumi. Storia velocemente archiviata come qualcosa di superato, come qualcosa che era obbligato a causa della carenza, i cibi “poveri” simbolo di un “sacrificio”, non più necessario in un mondo di benessere.
E così il paniere di una volta composto da poco più di 15 prodotti si è trasformato in un paniere composto da almeno da 1500 prodotti completamente diversi dagli originari, prima erano freschi e locali ora sono conservati, manipolati, confezionati nelle forme più attraenti, prodotti da diversi brand con diverse varianti e provenienti da tutte le parti del mondo.
Appare imponente la trasformazione subita, grazie all’evoluzione culturale, in termini di provenienza, qualità, freschezza dalle nostre buste della spesa dall’età della carenza a quella dell’abbondanza, a volte non sembrano nemmeno lontani parenti, a volte si fatica a trovare un prodotto che sia simile a quelli che per millenni abbiamo mangiato, di cui la gran parte ha poco a che vedere con i bisogni nutrizionali dell’organismo.
Questa specie di “schizofrenia alimentare programmata” è spesso rinforzata da un sistema di convinzioni che ognuno di noi si è costruito rispetto al cibo, spesso proposte con forza sempre dall’industria alimentare, ormai radicate e che hanno molto a che vedere con la sfera psicologica e affettiva e molto meno con i bisogni reali del nostro corpo. Il problema nasce quando la convinzione contrasta con un palese impatto negativo sulla salute che però a quel punto cerchiamo di negare in tutti i modi, di attribuire ad altro, di non vedere perché, eliminare quel cibo significa eliminare una parte della nostra storia e della nostra affettività e per cui scegliamo la sofferenza minore.
Pensiamo al latte, il cibo che rappresenta per eccellenza il legame con l’infanzia e con l’amore materno, quasi un prolungamento del seno. Viene identificato nell’immaginario collettivo, come il cibo ideale per la crescita e la salute dei bambini, come lo è del resto il latte materno nelle prime settimane di vita.
Tale immagine viene fortemente rinforzata dalla macchina di marketing e comunicazione messa in atto dall’industria lattiero casearia che lo associa fortemente ad una crescita sana, ad immagini evocative di nutrimento e sicurezza affettiva come il contesto familiare, immagini di mamma e bambino felici, all’amore della mamma per il suo piccolo, una cosa estremamente preziosa.
È evidente che poi per molti sia estremamente difficile abbandonarlo, rinunciare a tale elemento considerato “vitale”, assolutamente irrinunciabile da un punto di vista fisico e affettivo.
A volte tale sentimento si associa ad un senso di carenza dell’amore materno che magari non abbiamo avuto come avremmo desiderato e che il latte ci ricorda come elemento che viene a colmare tale vuoto, a ricompensarci per la mancanza avuta.
A volte si associa ad elementi di nostalgia, per cui abbiamo avuto l’affetto materno ma ci manca molto, volevamo rimanere in mezzo a quelle braccia protettive e non diventare mai adulti, non affrontare le fatiche e le sofferenze della vita. Il latte ci riporta a quelle atmosfere a quei “tempi dell’oro” in cui la vita era facile e felice!
È per questo che per molti adulti, anche settantenni o ottantenni, il latte è irrinunciabile, la tazza di latte e biscotti li accompagna dall’infanzia fino alla morte.
Peccato che il latte di mucca non sia quello della mamma e che sia molto diverso, che sia il primo cibo in assoluto come causa di allergie e intolleranze e che ormai sia stato accertato anche dalla medicina occidentale che il lattosio sia una delle cause principali di diverse malattie tra cui il tumore.
Un altro esempio è quello della carne, alimento che fino a 60 -70 anni fa veniva consumato dalla più parte della popolazione in media una volta alla settimana nei giorni di festa.
Con l’avvento del benessere, la carne ne è diventata il primo simbolo. L’assenza di carne riporta ai tempi percepiti come tempi di miseria e di stenti come la sua abbondanza al nuovo livello di benessere conquistato. Non si può rinunciare alla carne come non si può rinunciare al benessere e per cui diventa naturale che la carne diventi “proteina nobile” che deve essere assolutamente presente nell’alimentazione e che molte famiglie preparino carne sulla propria tavola una volta o anche due al giorno.
Peccato che la carne sia un alimento morto (a differenza di altri cibi che sono ancora vivi nel momento in cui li mangiamo e quindi anche a livello intuitivo portatori all’organismo di un altro tipo di energia) che tende a putrefarsi in pochissimo tempo e che il sistema di produzione a causa delle modalità di allevamento degli animali, del cibo a loro somministrato unito a tutto un insieme di componenti chimiche finalizzate a farli ingrassare e allo stesso tempo mantenere in salute, non è certo quello del contadino che allevava il pollo nell’aia.
Era quella la carne che mangiavamo una volta alla settimana nel momento di festa e che rimane così forte nel nostro immaginario, mentre oggi la carne che mangiamo è molto diversa.
Innestandosi su un percorso storico, culturale e psicologico consolidato, mantenendo gli stessi elementi presenti nell’immaginario collettivo, ma dandogli nuova forma, l’industria alimentare è riuscita a realizzare in modo “naturale” una metamorfosi miracolosa. A trasformare in pochissimo tempo un modello nutrizionale millenario, ad intuire che l’avvento del benessere economico del dopoguerra portava con sé la possibilità di andare ben oltre i sistemi di produzione e distribuzione locale per immaginare un enorme mercato globale da aggredire con un nuovo modello di produzione e distribuzione.
Non nego di essere in un certo senso affascinato dall’intuizione di questi uomini che, animati da spirito imprenditoriale, prospettiva di profitti e perché no magari, anche desiderio di realizzare una vita più facile per tutti, più abbondante, un mondo diverso e migliore (almeno alcuni di loro) abbiamo immaginato questo grande sogno, questa grande trasformazione e siano riusciti in pochissimo tempo a metterla in atto.
Ma la cosa più significativa è la profondità della trasformazione culturale che, per arrivare al cibo è partita da più lontano e partendo dal cibo ha superato di molto i cuoi confini.
Pensiamo ai vecchi contadini, per nascita e definizione i primi ad essere legati ai ritmi della natura e ad un metodo di produzione tradizionale, arrivati a “dimenticare” le loro origini e a convertirsi al mondo facile della distribuzione di massa. Non è un paradosso vedere vecchietti con il bastone spingere a fatica carrelli pieni di cibi colorati e scoprire nelle loro case congelatori mastodontici pieni di carne congelata.
Ed è in fondo facile intuire perché. Proprio loro, che hanno sofferto guerra e fame, si sentono appagati, soprattutto psicologicamente, da quei carrelli e congelatori pieni e come ciò li faccia sentire sicuri e al riparo, ora più che mai alla loro veneranda età, rispetto a quelle minacce che non potrebbero più sostenere.
È proprio su questi sentimenti che si è fondato il business, su queste paure, su questi giusti e naturali desideri di benessere e abbondanza, che è stato facile innescare una repentina rivoluzione che si è appoggiata, oltre che sugli elementi materiali e psicologici citati, anche su un altro importante elemento “estetico”, il senso della modernità. Modernità e progresso sono i sogni permanenti dell’umanità, per molti incarnano per definizione l’idea di una vita migliore.
Cibi nuovi e ben confezionati sono cibi moderni, sono il segno della crescita, il mondo deve andare avanti deve evolvere, anche il cibo diventa “tecnologico”.
Abbondanza e modernità promettono insieme una vita migliore e una vita migliore è anche una vita più facile, liberata da alcune fatiche che la rendevano veramente complessa, una vita anche più sana (e indubbiamente un’alimentazione variata di cibi sani è elemento di salute e prosperità per l’organismo) che si associa ad una alimentazione ricca che deve contenere un po' tutti (o almeno il più possibile) dei nuovi prodotti dell’industria agroalimentare.
Il problema essenziale che ha “tormentato” l’uomo è stato (e purtroppo ancora per molti lo è ancora tutt’oggi) quello di procurarsi cibo in un contesto di scarsità. Il supermercato è venuto a dire che questo è definitivamente superato.
Questa promessa di emancipazione, provoca per reazione, una rivoluzione più profonda, una rivoluzione legata alla visione del mondo e allo stile di vita e, soprattutto, alla visione di sé e del proprio benessere: dalla presa di responsabilità diretta delle funzioni prioritarie, si passa ad una sostanziale delega. La promessa è quella di poter abbandonare certi impegni, certe funzioni, delegarle ad altri anche a costo di perdere il fulcro della nostra essenziale autonomia.
Impegno, scelta, ricerca, crescita, sono faticosi e rappresentano le caratteristiche del cittadino, siamo sempre meno cittadini e sempre più consumatori, senza spesso accorgercene.
È qui il paradosso dell’emancipazione che non si realizza, perché in realtà siamo diventati più fragili e dipendenti da un sistema che non vuole gestire solo il cibo che mangiamo, ma la nostra salute e in realtà la nostra stessa vita.
Non è importante che si mangi o non si mangi carne o che si beva o non si beva latte, in primis perché il cibo come detto è e deve essere in ogni caso fonte di una scelta personalissima dell’individuo, specchio delle sue necessità non solo fisiche ma anche, emozionali e spirituali.
Ciò che invece è importante è la consapevolezza che si acquisisce, sulla base della trasparenza, della conoscenza delle cose, dello studio della storia del cibo e del suo contributo all’evoluzione dell’uomo, della comprensione del nostro funzionamento e dei nostri bisogni. Ciò consente di avere una mente aperta, di uscire dall’ignoranza, di liberarsi dai messaggi del marketing e la comunicazione, come dalle abitudini acquisite dall’esterno, dai limiti e dalle nostalgie del vissuto, per poter scegliere e poter anche capire ciò che abbiamo di fronte e che impatto ha su di noi: questo è un nostro diritto.
Sotto tale punto di vista il cibo è inevitabilmente una conquista culturale, è un rapporto, come molti altri, legato alla curiosità, alla voglia di conoscere e di apprendere che attiva un percorso di sperimentazione, che spezza il tunnel della sofferenza. Attraverso il cibo ci apriamo al nuovo, ci mettiamo in discussione e sperimentiamo le vie del possibile per arrivare a capire e aggiustare in permanenza, in modo dinamico, il nostro modello alimentare.
Questo processo democratico di crescita e di conoscenza rispetto al cibo, è uno snodo a cui molti non riescono ad avere accesso, le informazioni e le proposte sono tante, sono confusi e soffrono senza sapere perché.
E nella sofferenza avviene un altro paradosso. La meraviglia dell’organismo è che, quando sottoposto ad aggressioni di sostanze essenzialmente estranee, inizia un processo di adattamento alle nuove condizioni per cercare di mantenersi in salute.
Quante volte ci sentiamo dire: “È da 20 anni che mangio tutti i giorni questo cibo e non ho mai avuto problemi”, oppure “Ha sempre mangiato così ed è campata 100 anni!”.
L’organismo si adatta fino a che può. La mancanza di sintomi non significa che non ci sia all’interno un processo di sofferenza, di deterioramento del sistema immunitario, di perdita progressiva della salute che poi ad un certo punto si manifesta in tutta la sua evidenza, a volte quando è troppo tardi.
Il sistema di convinzioni che determina che quel cibo, quello stile di vita è ok, spinge in tutti i modi perché lo sia veramente, perché l’organismo, volente o nolente lo accetti, la mente è più forte.
La mente non lo mette discussione fino al giorno in cui c’è un crollo, e la mancanza di cibi naturali e sani ci porta alla malattia se non alla morte. E allora le frasi sopra indicate diventano “stava tanto bene, per 20 anni non ha avuto un problema e poi, inspiegabilmente…” non c’è più. Ma è naturale che un organismo che per anni si difende, si adatta, ad un certo punto ceda e ceda a volte senza rimedio, avendo ormai speso tutto quello che poteva spendere.
Tale percorso di sostanziale sofferenza ha vissuto il paradosso di trovare gran parte del sistema medico, per compiacenza, interesse o per ignoranza, come il suo primo alleato.
È facile immaginare il potere che abbia esercitato fino all’avvento di internet (che ha dato la possibilità anche ai singoli di informarsi rapidamente in modo diretto) il consiglio del medico di famiglia o tanto più dello specialista, uniche fonti ufficiali, accreditate e, di conseguenza credibili in materia di salute. Il naturale contrappeso dell’impatto del cibo manipolato è diventato la pillola, la medicina che tutto risolve. “Dottore ho mal di pancia, forse perché ho mangiato tante salsicce secche negli ultimi giorni, devo smettere”? “Non si preoccupi, non esageri ma non si tolga questo piacere. Quanto sente il bruciore prenda questa pastiglia di Maalox e le passerà tutto. Così potrà continuare a godere del piacere del cibo buono”.
In tale contesto culturale, caratterizzato dal “mito della pillola”, il legame tra industria alimentare e industria farmaceutica, in un business complessivo enorme, si consolida e ciò a detrimento della salute e quindi della felicità degli individui: il passaggio da “consumatore” del supermercato a “utente” del sistema ospedaliero è tristemente fluido.
Si crea un sistema di comunicazione e gestione che collega le varie componenti e che propone un percorso “coerente” che, per chi non ha sviluppato una sua cultura sul cibo, una sua visione personale, rischia di essere quasi un percorso obbligato.
In fondo il cibo e i medicinali sono sempre più accomunati in una visione univoca dove ciò che conta sono le reazioni biochimiche meccaniche. Mangio un cibo e ho un effetto, prendo un medicinale e ho un effetto.
In una cultura dove si deve mangiare tutto, dove la nostra nutrizione è regolata e decisa dall’esterno, e noi non dobbiamo far altro che adeguarci alla meraviglia proposta ai nostri occhi, anche la parte medica è regolata dall’esterno, non dobbiamo capire che cosa abbiamo e prevenirne le cause, non vale la pena, basta prendere una pillola e tutto si risolve, e se ricapita una nuova pillola o magari anche due, così quel brutto sintomo lo sistemiamo veramente per le feste. Peccato che quel sintomo è un grido di disperazione che il nostro corpo (e a volte non solo il nostro corpo ma anche la nostra mente, il nostro cuore) attraverso il cibo ci lancia per dire basta prima al cibo e poi alle medicine.
Fino a poco tempo fa, dire che alcuni cibi facevano male o ancora di più che alcuni cibi al contrario potevano curare e migliorare la salute, era considerato a dir poco fantasioso. Quante volte ho sentito dire la fatidica frase: “se è una cosa leggera si, può prevenire o usare altre cure ma se è una cosa grave ti puoi curare solo con le medicine”.
Solo da poco la medicina ha iniziato a parlare, (seppur con moderazione e perché spinta dalle nuove e crescenti lobby dei vegani e dei sostenitori del cibo naturale) in modo chiaro, degli effetti negativi del cibo sulla salute (fino a pochi anni fa volutamente sottaciuti dai sistemi di cura ufficiali in “collaborazione” con le lobby dei produttori), cosa che prima era appannaggio di gruppi di pensiero isolati e spesso osteggiati, come macrobiotici e vegetariani.
Oggi c’è un filone medico molto importante che ha abbracciato questa nuova visione e che vede nella prevenzione, nell’attenzione allo stile di vita, nella presa in carico personale come atto di responsabilità, la nuova frontiera della salute.
Un altro paradosso evidente ai nostri occhi e che, perfino le scoperte mediche sull’impatto negativo di alcuni alimenti sulla salute umana (quelle che vengono divulgate vicino a molte che vengono volutamente sottaciute), hanno come effetto, quello di stimolare l’industria alimentare verso nuovi affari e trasformare un potenziale problema in un nuovo interessante mercato, più raffinato e mirato. È proprio quando dall’individuo si passa al gruppo, alla massa, ai “numeri” tutto diventa un business: chi ieri vendeva bistecche (e le vende ancora oggi) e derideva i vegetariani (ancora troppo pochi e poco visibili) oggi produce alimenti alternativi per vegani (tanti e visibili).
Molti di noi, prima voci isolate, percorrono oggi una via propria al cibo e alla salute, cercando di sostenere e riattivare le piccole produzioni locali, e il tessuto sociale che le accompagna, puntando sulla qualità. Tali sentimenti si sono trasformati anche in forti tendenze al ritorno ad una vita sana partendo dalla salute, con in primis il movimento vegetariano e poi il vegano in grande crescita, il forte ritorno al biologico e ai cibi “storici” non manipolati.
Cambiamenti importanti, frutto di una nuova coscienza, con qualche rischio di strumentalizzazione nel momento in cui il movimento, il gruppo, diventa più importante della persona e anche qui nasce la necessità e il rischio di adeguarsi e la paura di essere tagliati fuori.
Le etichette provocano, un ulteriore paradosso, in un mondo stranamente propenso all’intolleranza (al contrario di quello che lo sviluppo della civiltà avrebbe fatto immaginare), l’affermarsi di gruppi e tendenze che, tanto più se visibili e rilevanti, vengono percepite non come un’occasione di crescita per tutti ma come una minaccia all’ordine costituito, una “stravaganza” intransigente. Basta vedere, solo per fare un esempio, come oggi i vegani vengono tacciati di intransigenza perché scelgono il cibo con cui vogliono nutrirsi, da chi vorrebbe con un’intransigenza tanto più forte (se si considera che pretende di decidere sulla salute degli altri) che rimanessero all’interno dello status quo o almeno manifestassero le proprie scelte con più moderazione, mangiando almeno un po' e almeno ogni tanto il cibo da “persone normali” che mangiano tutti.
Non abbiamo in effetti bisogno di identificarci come vegetariani, vegani o macrobiotici, non abbiamo bisogno di uno “scudo” filosofico e culturale, di un’appartenenza per affermare il nostro diritto ad essere e ad alimentarci come vogliamo noi, come singoli individui al di là dell’adesione a trend e movimenti.
Da molte parti si afferma a ragione che la vita dell’uomo si è allungata e che questo è dipeso anche dal cibo. È sicuramente vero che la carenza del passato portava ad una mortalità precoce. La scarsità di cibo e la sua incompletezza erano una delle cause che si univano a condizioni igieniche sanitarie non adeguate, lavoro comportante uno sforzo fisico e un logorio elevato, abitazioni non riscaldate, scarsa cultura sui temi della salute e della prevenzione da agenti patogeni e inquinanti e via dicendo. L’insieme di questi elementi contribuiva a rendere la vita sicuramente più difficile e la sua aspettativa molto più breve.
La rivoluzione alimentare aveva in potenza ad una grande opportunità: non solo allungare la nostra vita ma migliorare il nostro cibo partendo dalle nostre tradizioni, mantenere la salute al centro del percorso, grazie agli strumenti della modernità. La selezione dei cibi poteva avvenire sulla base di principi che hanno sempre contraddistinto il legame dell’uomo con la terra e quindi cibi sani, naturali, non modificati, stagionali.
Ciò poteva avvenire e non è avvenuto. Non si è creata quella cultura di conoscenza, di centralità dell’individuo, di attenzione ai bisogni. I presupposti e gli obiettivi erano diversi e abbiamo perso temporaneamente la battaglia per la salute, ma non abbiamo perso la guerra e come visto c’è un graduale ma significativo ritorno a ciò che siamo.
Bisogna lavorare sulla consapevolezza interiore, conta che ognuno scelga cosa essere e lo traduca attraverso ciò che mangia: “mangi ciò che sei, sei ciò che mangi”.
In una famiglia (magari con qualche problema di organizzazione ai fornelli) possono convivere sereni vegetariani e carnivori, vegani e appassionati di uova e formaggio, padri e figli, ognuno nel rispetto della scelta e del percorso esistenziale, nutrizionale e di salute dell’altro, tutti liberi dalla sofferenza che trova la sua prima origine nell’ignoranza.
Oggi abbiamo gli strumenti e le fonti per sapere, per capire l’origine e la finalità dei paradossi che circondano il cibo, per decidere di soffrire o di non soffrire… da che parte vogliamo stare?
TORNA AD AMARE TE STESSO - 37
“Sposa qualcuno che sappia cucinare. L’amore passa, la fame no”. (Anonimo)
Il cibo rappresenta un ambito estremamente importante, nella vita di un individuo sotto diversi punti di vista, che non vanno assolutamente sottovalutati.
Ha a che fare in primis con la nostra libertà e con il valore delle nostre scelte individuali. Il quesito che dobbiamo porci rispetto alla nostra esistenza e quindi anche rispetto al nostro cibo è: vuoi decidere la tua vita o vuoi che siano altri a deciderla? Vuoi essere attore del tuo destino o spettatore?
La domanda è intesa in senso ampio e la risposta che ne deriva va a definire quello che è il nostro approccio alla vita e chiaramente anche al cibo in quanto elemento essenziale.
Una scelta di libertà è chiaramente più impegnativa, comporta una ricerca e un ascolto di se stessi, per conoscere il nostro corpo, conoscere gli alimenti e utilizzarli nel modo migliore.
Significa da un lato rimettersi in discussione rispetto ai propri modelli nutritivi, quelli della nostra infanzia e dalla nostra famiglia di origine, rivedere le proprie tradizioni, modificare le proprie abitudini.
Significa saper cambiare, saper abbandonare cibi che ci hanno accompagnato e con cui siamo cresciuti.
Significa dall’altro il contrario, sapere tornare ai modelli originari, ai rituali carichi di significato e di amore. Significa recuperare il proprio tempo per andare a comprare dal contadino, per cucinare come faceva la mamma, sfornando non solo cibo ma anche coccole. Significa recuperare nella propria vita non solo cibi sani ma la qualità di quelle atmosfere, di quel nutrimento affettivo profondo che si lega molto alla parola amore.
Significa prendere in mano con decisione e dedizione il nostro rapporto con la fonte prima di sopravvivenza e il nostro primo contatto con il mondo rispetto a ciò che siamo oggi, significa ascoltarci ed amarci, prenderci cura.
È un passo sostanziale di grandissimo significato. Essere in grado di decidere di cambiare il nostro rapporto con il cibo significa poter dominare una parte essenziale di noi.
Ha anche un grande significato simbolico, cambiare il cibo è un ottimo punto di partenza per cambiare anche il resto. È una palestra, una prova, un percorso di tensione che crea autostima, che dimostra che ce la possiamo fare.
I risultati che ne scaturiscono ci danno ancora più forza e autostima per continuare a perseverare e, perché no, a crescere.
Il piacere di una vita sana, di un equilibrio che impatta in modo positivo tutta l’esistenza è molto più ampio e più importante del piacere immediato di una pasta al cioccolato. Pasta che ci possiamo chiaramente concedere ma decidendo noi quando e godendocela fino in fondo e non essendone posseduti, senza la possibilità di resistere. Il piacere di breve termine è un qualcosa di immediato, di intenso ma spesso molto fugace, una sensazione forte che spesso lascia dietro di sé un senso di vuoto.
Il piacere di un percorso, del senso di crescere e migliorare si basa sui passi precedenti, sulle conquiste, sul mattone sopra mattone che crea una sensazione di pieno, di continuità.
Rispetto al cibo, come rispetto a tutti gli aspetti della vita, possiamo scegliere di avere piaceri forti di breve termine o gestire un percorso di soddisfazione di lungo termine, è la differenza tra la ricerca del piacere e l’amore per se stessi, tra un orgasmo e una famiglia, entrambi danno un senso di piacere innegabile ma completamente diverso.
È molto legato a ciò che siamo, il cibo è nostro specchio, nel senso che cerchiamo il cibo più vicino alla nostra personalità, ma è anche specchio nel senso che ci rinforza in ciò che siamo, perpetua lo stato legato alla sua energia. Se siamo rigorosi ed equilibrati, tenderemo a mangiare cibi equilibrati che mantengono il nostro stato di benessere. Se siamo squilibrati cercheremo di compensare con un cibo forte e le nostre mancanze in un’altalena di dolce e salato.
Se ci amiamo è naturale pensare che una mente sana deve essere ospitata da un corpo sano e che ciò comporta delle scelte.
Se mangiamo cibi locali, stagionali e freschi, senza additivi e conservanti, avremo fatto il più logico e scontato atto di amore per noi stessi e per il mondo che ci circonda, un passo chiaro verso una maggiore felicità e sostenibilità. È una scelta ideale ma anche molto concreta che possiamo fare oggi scegliendo dove comprare, cosa mangiare … iniziano a costruire per noi e per gli altri una vita e un futuro diverso.
Ciò ha un impatto positivo anche su un altro aspetto a cui siamo molto sensibili, il conto della spesa, perchè se è vero che oggi il cibo sano e biologico ha un costo superiore, ne serve una quantità decisamente inferiore, rispetto a cibi conservati e impoveriti che gonfiano ma non danno il senso di sazietà. E poi se è vero che spendiamo tanti soldi per tante cose a volte superflue, non vale forse la pena investire qualche euro in più sulla nostra salute? Su noi stessi? Sulla nostra felicità?
CIBO PER IL CORPO: LOCALE, FRESCO STAGIONALE, INTEGRALE - 41
"Che il tuo cibo sia la tua unica medicina.'' (Ippocrate di Cos, Aforismi, V-IV sec.)
La lettura della storia è molto utile e ci svela molte verità sul presente che spesso abbiamo stranamente e paradossalmente dimenticato.
È sempre utile tornare a leggerla, non per ripeterla in modo pedissequo, non avrebbe senso, ma per riprendere gli spunti di continuità che sono la base per ogni evoluzione, il filo rosso che ci accompagna e che è fondamenta di ogni vera rivoluzione.
In estrema sintesi, se osserviamo lo sviluppo dei modelli alimentari delle diverse aree del mondo, troviamo (chiaramente con alcune eccezioni che si possono sempre riferire a elementi storici o socioeconomici) fino al dopoguerra, alcuni elementi principali semplici, banali ed estremamente facili da comprendere.
L’uomo ha consumato nei secoli cibo sulla base di 4 principi essenziali: Cibo locale.
Il cibo proveniva in gran parte dal territorio. I sistemi di produzione e di distribuzione erano locali. Potevi trovare lo stesso cibo sia nei campi vicino a casa tua, che nella piccola bottega di alimentari al centro della città dove andavi la domenica. Era il cibo che avevi visto fin da piccolo e che aveva popolato la tua tavola da sempre. Era qualcosa di estremamente familiare, non solo perché era quello con cui eri cresciuto, ma anche perché era quello di cui conoscevi esattamente tutti i passaggi.
Era il grano che vedevi seminare nei campi, che vedevi raccogliere o che anche tu raccoglievi, che vedevi macinare al mulino sotto casa tua e poi, trasformato in farina che vedevi diventare pane caldo appena sfornato la mattina alla 5 con quell’odore che inondava tutto il vicinato e che tua madre si premurava di prendere e fartelo trovare sul tavolo, con quella marmellata di ciliegie spalmata sopra.
Erano quei vitelli che andavi a vedere nascere con tuo padre perché era un avvenimento, che vedevi correre vicino alla loro madre sui campi quando passavi in bicicletta, che trovavi quel giorno appesi in macelleria, pronti per allietare il tuo pasto della domenica.
Erano quei dolci che venivano sempre fatti con le fragole colte sotto casa ogni anno, che ti piacevano tanto e che rendevano più dolce l’arrivo dell’estate, o quelli alle noci e miele che trovavi sempre sotto l’albero di natale e rendevano dolcissimo quel momento di festa.
Era quel vino che conoscevi già in parte, avendo preso un bel grappolo d’uva matura dalla vigna del vicino e che vedevi passare sui tini dei rimorchi, quel vino dal sapore acidulo, senza la correzione dell’esperta mano di un enologo.
Era un cibo che non ti abbandonava mai, perché non solo ti nutriva, ma accompagnava ogni momento della vita lavorativa, delle feste, delle ricorrenze di una comunità locale.
Non a caso era il cibo che mangiavi, era quello che trovavi nel tuo territorio che garantiva le migliori condizioni di sviluppo, era quello la cui produzione era in armonia con l’ambiente, era quello che ti trasmetteva l’energia necessaria per vivere nel tuo habitat e trovare armonia.
Oggi il cibo proviene da tutto il mondo: si consumano banane al Polo Nord e salmone norvegese in Africa, non c’è più legame con il territorio, non c’è più legame tra cibo e ambiente, tra l’energia che il cibo trasmette e le necessità fisiche dell’individuo.
La connessione diretta è persa e c’è una tavola estremamente ricca di elementi ma profondamente sconnessi tra di loro, sconnessi dal territorio in cui vengono prodotti e da quello in cui vengono consumati.
Se prima c’era una specie di contatto diretto e inevitabile tra cibi e bisogni (seppur con tutte le carenze che ci potevano essere) e ciò dava stabilità e continuità, oggi c’è di tutto e questo non aiuta nella direzione dell’equilibrio nutrizionale
Cibo fresco
I moderni sistemi di conservazione e di trasporto del cibo hanno favorito l’esplosione dei cibi conservati. Quando tali tecnologie non erano disponibili ed esistevano solo pochi sistemi di conservazione rudimentali, il cibo era o fresco o avariato e quindi immangiabile. I tempi di conservazione erano quelli dettati della natura e da tutti conosciuti, dopo di che non era più cibo per umani, al massimo il suo ruolo diventava quello di ingrassare alcuni animali, con uno stomaco più forte del nostro.
I cibi erano pochi e ben definiti, ognuno con un suo preciso ruolo nutrizionale e un suo intatto valore energetico. Oggi la creazione di una miriade di cibi conservati con le più diverse tecniche consente di avere una grande varietà ma quasi nessun cibo realmente fresco.
Cibo stagionale
Il cibo, come la vita dell’uomo, era legata alle stagioni e a quello che in quel determinato luogo e con quel determinato clima era possibile avere. I cibi erano inevitabilmente legati all’energia del tempo e al relativo clima che richiedevano al corpo diversi alimenti in un’armonia naturale. Ogni stagione aveva le sue scoperte e i suoi piaceri gastronomici, che spesso si legavano in un tutt’uno alle feste e alle tradizioni locali. La primizia era quella che annunciava l’arrivo di una nuova fase, con tutto quello che comportava, preparando il corpo e lo spirito al cambiamento, era quella che dava piena coscienza del tempo che passava e che una nuova primavera, una nuova estate era arrivata.
Il cibo di stagione, maturato naturalmente e con tutto il tempo necessario, aveva il sapore che doveva avere. Oggi abbiamo le fragole in inverno e le arance in estate, il cavolo in agosto e le zucchine a Natale e molti, soprattutto tra i più giovani, non sanno quale sia la stagione naturale di ogni cibo, lo consumano tutto l’anno indifferentemente dalle condizioni meteo. È chiaro che l’organismo ha bisogno di cibi diversi in gennaio o in luglio e che consumare lo stesso cibo tutto l’anno a +40 ° o a -5°, sulla spiaggia al sole o difronte ad un camino acceso, sia quantomeno anomalo.
Cibo integrale
Essendo l’industria agroalimentare moderna poco sviluppata il cibo era essenzialmente integro, non veniva manipolato se non in minima parte e veniva consumato come natura crea. Ciò aveva il grande vantaggio di mantenere intatto il valore nutrizionale e di massimizzare l’apporto al nostro corpo, rispetto a quelle che erano le quantità di cibo consumato.
Oggi disponiamo di, e consumiamo, moltissimi cibi fortemente manipolati ai fini della conservazione o della presentazione sul mercato nella migliore forma possibile, per competere sui banconi dei supermercati con i cibi concorrenti, che nei diversi passaggi di lavorazione spesso perdono gran parte del loro valore nutrizionale, diventando qualcosa di diverso e fortemente impoverito. Basti pensare alla differenza tra il chicco di grano e la farina bianca doppio 0.
Il paradosso è che mangiando molto di più e anche molti cibi non necessari, si gode di un apporto nutritivo minore e magari ci si ingrassa pure. Il corpo riceve molti elementi, magari spesso “inutili” ma non abbastanza di quelli necessari ed indispensabili.
Da qui carenze, scompensi, anomalie e malattie spesso “inspiegabili”, perché le cose nel frigo sono tante, ricche e ben presentate ma non sostanzialmente adeguate.
Al di là del fatto che l’uomo si sia costruito, sviluppato e dato continuità nelle generazioni con cibo locale, fresco, stagionale e integrale, appare abbastanza ovvio che sia questo il mix semplice di elementi che consente di trovare un’armonia tra ciò che è fuori di noi, la natura, le stagioni e ciò che sono i nostri bisogni e quindi di nutrire il nostro corpo sia a livello chimico che a livello energetico, aiutandoci a progredire e a non ammalarci.
Sono 4 principi di equilibrio che possono ancora rappresentare dei punti cardine di riferimento anche in una società moderna dove possono essere tranquillamente applicati, anzi migliorati, in una tavola che permette un menù più ricco e più vario ma non a scapito del suo valore e della sua qualità intrinseca, che si lega inevitabilmente ai sui principi di origine.
Non si tratta di tornare all’era aulica della purezza contadina o di negare i vantaggi di un’alimentazione più ricca e variata per uno sviluppo più armonico.
Si tratta di apprezzare il progresso con ciò che ne deriva per l’esperienza, il gusto e la salute ma utilizzandolo in armonia con i principi essenziali, in buona sostanza utilizzandolo per il benessere dell’uomo e non per i fatturati dell’impresa agroalimentare.
In fondo è solo una questione di obiettivi e di visione dell’uomo e dei suoi bisogni a determinare la scelta, la tipologia del prodotto finale. In particolare, nelle aree ricche del mondo, non a caso rappresentanti i mercati più interessanti per l’industria agroalimentare, si è affermata sempre di più una visione meccanicistica dell’individuo che ha coinvolto alimentazione e medicina.
L’individuo è visto come una macchina, composto di parti componenti e di un funzionamento basato sulla chimica.
È un approccio basato sulla quantità di elementi, che presuppone un individuo standardizzato e molto simile ad una automobile, che necessita del carburante giusto tra benzina, gasolio, GPL o metano e di una manutenzione da parte di tecnici specializzati. C’è il gommista, il carburatorista, il meccanico, l’esperto di elettronica. Anche l’uomo viene curato con questo approccio. Se ha un dolore al ginocchio si va dall’ortopedico e all’orecchio dall’otorino, specialisti sempre più di dettaglio ma senza alcuna visione globale.
Il medico generico, un tempo prezioso orientatore della salute, conoscitore dei suoi pazienti in tutti gli aspetti non solo fisici ma anche personali e familiari, a volte attento psicologo, riusciva a risolvere il 70-80% dei casi che non fossero gravi e richiedessero l’intervento ospedaliero. Oggi è ridotto ad un piccolo burocrate con l’obiettivo principale di indirizzare i suoi pazienti dai vari specialisti o di compilare certificati medici e ricette per medicinali che a volte non vorrebbe prescrivere, ma che i suoi pazienti richiedono per essere rassicurati, per trovare una soluzione veloce e dare senso a quella visita al dottore.
Non si tiene conto del suo apporto energetico, il suo valore nutritivo intrinseco. Eppure è abbastanza ovvio, che se il cibo è integrale, stagionale (e quindi maturato con il sole e con la sua energia e non artificialmente) e fresco avrà un potenziale e un apporto diverso per il nostro corpo.
Per quanto quasi lapalissiano tale principio è stato fortemente annacquato da obiettivi diversi, quelli del profitto e non della salute, e da visioni diverse, quella dell’uomo meccanico e non dell’uomo olistico.
Un uomo meccanico e globalizzato è pronto a mangiare cibi moderni e modificati con un enorme potenziale di business. E se viene educato, convinto e inglobato in questa visione del mondo, educherà i suoi figli e il business correrà per generazioni e generazioni.
Il corpo è un sistema articolato e interconnesso a livello chimico ed energetico con l’ambiente che lo circonda, dove i legami e gli equilibri sono complessi e dove c’è un’armonia legata alla coerenza. Non a caso in Umbria produciamo lenticchie e non mango, perché il clima è diverso e con il clima la terra, la produzione e il corpo umano. È un sistema perfetto che con la scienza e la conoscenza possiamo migliorare, possiamo adattare, ma che non dovremmo sconvolgere o asservire a logiche diverse da noi.
È importante capire, porsi degli interrogativi:
1) Quali sono i nostri reali bisogni, i bisogni primari, esistenziali e non quelli indotti, di cosa ha bisogno veramente il nostro corpo?
2) Perché troviamo nel supermercato un certo tipo di offerta, respiriamo un certo tipo di messaggio? Quali sono gli obiettivi e la visione dell’uomo e del mondo che ci sono dietro?
Se capiamo questo possiamo fare una scelta consapevole e nutrici in armonia con i nostri bisogni, possiamo fare una personale scelta di libertà.
IL CIBO NON È CHIMICA È ENERGIA - 49
La suddivisione degli alimenti in categorie di elementi chimici prevede una visione fortemente divisa e parcellizzata del cibo e dell’uomo, mentre invece sia l’ecosistema produttivo che l’uomo sono in realtà organismi complessi e interconnessi.
Tale approccio non tiene conto di quelli che sono gli elementi qualitativi che in fondo sono i più importanti. Il cibo non è solo chimica, ma soprattutto energia. Il cibo trasmette all’organismo l’energia che ha accumulato e creato nel suo processo di costituzione e maturazione, la sua forza vitale. Un chicco di grano se messo in un barattolo con dell’ovatta bagnata (esperimento che probabilmente tutti abbiamo fatto a scuola da bambini nell’ora di scienze) germoglia e se nutrito ha il potenziale di arrivare alla spiga. Al di là dei componenti chimici che contiene, la sua vera forza, il suo vero nutrimento che inseriamo nel nostro corpo, e che il cibo ci trasmette è proprio questo potenziale di crescita. Provate a mettere della farina bianca nell’ovatta bagnata, il risultato che otterrete dopo solo un paio di giorni sarà molto esplicativo della differenza rispetto al chicco di grano.
Il vero “carburante” è l’energia che il cibo esprime e che si traduce in energia e salute del nostro corpo.
L’apporto energetico definisce il contributo che ricevo e di cui disporrò in termini quantitativi, nel senso che mi sentirò più o meno forte (come usiamo dire non a caso “sono pieno di energia”) ma anche in termini qualitativi: ogni cibo ha una precisa energia che deriva dalle sue caratteristiche e quando è trasmessa al nostro corpo lo influenza profondamente.
Se ci soffermiamo tu tale aspetto appare evidente come diventi fondamentale la scelta del cibo rispetto alla sua energia e come sia importante invertire la tendenza a cui siamo abituati di mangiare “molto e male” iniziando a mangiare “poco e bene”.
Ci siamo convinti che per stare bene sia necessario mangiare molto. La carenza del passato ci ha spinto ad eccedere in senso opposto e a consumare una quantità spropositata di cibi scarsamente nutrienti che non fanno che appesantire le nostre funzioni vitali.
Abbiamo bisogno di poco cibo ma selezionato, fortemente nutritivo e mirato ai nostri bisogni reali.
La medicina cinese ha da sempre adottato una visione olistica dell’uomo, dove è essenziale l’interconnessione degli organi interni tra di loro e con le parti esterne, dando una lettura completamente diversa da quella meccanicistica.
Come tutte le cose, anche il cibo non è diviso soltanto in componenti chimiche ma in elementi energetici a valenza yang (che in estrema esemplificazione si lega al maschile e ai cibi alcalini) e lo yng (che si lega al femminile ai cibi zuccherini).
È una lettura qualitativa del cibo che ci apre a due ambiti completamente nuovi:
- ci dice come il cibo ci influenza fornendoci ciò di cui abbiamo bisogno a seconda del ruolo che svolgiamo, della fatica fisica e mentale a cui ci dobbiamo preparare, del momento emozionale che viviamo, della prestazione sportiva che dobbiamo sostenere, ci dice se siamo fragili o forti e dobbiamo rinforzarci ancora o rilassarci. - ci dice quanto sia importante non tanto il singolo cibo ma la modalità di combinare diversi cibi, è da tale incontro che nasce la “frequenza” dell’energia che infine, dal sistema digerente, viene distribuita a tutto il corpo, ad ogni singola cellula, influenzando le nostre azioni, la modalità di realizzarle, il loro risultato.
È facile immaginare che la gran parte dei manager della City londinese o dei broker di Wall Strett siamo dei buoni consumatori di carne e cibo animale coerente con il mondo competitivo che li circonda e dell’aggressività di cui hanno bisogno per sopravvivere con successo in tale contesto.
Come del resto i monaci zen delle alture dell’Himalaya consumino più riso e verdure in armonia con il loro ritmo di vita attivo e meditativo allo stesso tempo che necessita di energia fortemente equilibrata.
Nel mondo animale è facile capire la differenza energetica tra un leone e una gazzella e come il cibo necessario per mantenere la loro struttura e per nutrire la loro natura sia fisica che istintiva sia diverso.
Se la carne ci trasmette una forte energia yang, adatta a momenti in cui lo sforzo fisico ed emotivo sono maggiori, il suo apporto cambia nel momento in cui la mangiamo con una verdura a foglia larga come l’insalata che, avendo un’energia esattamente opposta, mitiga l’energia della carne producendo come risultato un contributo più equilibrato.
La conoscenza della natura energetica e qualitativa degli alimenti ci consente di poter fare un grandissimo salto di qualità nella nostra alimentazione, quello di mixarli in modo mirato, di usarli in modo funzionale ai nostri bisogni. Conoscendo le nostre necessità e le nostre dinamiche di funzionamento possiamo dare una direzione, influenzare il loro impatto.
Per fare alcuni esempi:
- se li vogliamo smorzare possiamo usare cibi con valenza energetica opposta
- se li vogliamo enfatizzare usare cibi con la stessa energia
- se li vogliamo equilibrare possiamo lavorare sul mix delle energie
È estremamente affascinate arrivare a tale livello di conoscenza e di consapevolezza di sé, è simile alla differenza che si prova tra viaggiare in un pullman con il conducente, un viaggio fatto di tappe e fermate obbligate, da totale spettatore, ad un viaggio da pilota esperto di un fuoristrada, in cui si può andare dove si vuole, fermarsi quando e quanto si vuole, tenere la velocità che si ama.
Il cibo si valuta con un altro metro, il metro energetico, che comporta una lettura molto diversa, con risultati altrettanto diversi: un cibo considerato nutriente dall’approccio tradizionale può diventare inadeguato per un certo individuo in un certo momento e ancora più inadeguato se unito ad altri cibi similari che non equilibrano o compensano la sua energia.
Il mondo della conoscenza si allarga in modo esponenziale. È come se un velo si togliesse difronte ai nostri corpi per proporci un mondo completamente nuovo, tutto da sperimentare. Inizia un rapporto entusiasmate con il cibo, nella scoperta di questo infinito mondo energetico che ci può nutrire come noi vogliamo, nel momento in cui vogliamo e nella quantità di cui abbiamo bisogno.
È un grande potere. Prendere in mano la scelta e il consumo consapevole del cibo non è solo gestire la salute in termini di mantenimento di uno stato senza malattia ma significa modulare energia a nostro uso e consumo, amplificare cosa siamo, dirigerci verso cosa vogliamo essere.
E quando inizi ad utilizzare gli alimenti con questa nuova visione, avviene un altro piccolo “miracolo”.
Il tuo corpo ti segue, si abitua a questo nuovo modo di essere nutrito, ti asseconda, sviluppa la sua sensibilità e inizia a comunicare fortemente con te e con tutto il tuo essere:
- ti chiede il cibo di cui hai bisogno in modo insistente. Quante volte ci diciamo e diciamo anche a chi ci è vicino “questo periodo ho bisogno di …” “oggi mi va tantissimo la…”. Ti dà un messaggio molto forte perché tu lo hai curato e hai creato con lui un forte legame, avete un dialogo aperto, che diventa tanto più intimo e profondo quanto più impari ad ascoltarlo e a sperimentare con lui.
È un percorso di scoperte e sorprese, come in un viaggio con un carissimo amico, che ti riporta a sviluppare una profonda familiarità.
- Rifiuta il cibo che non ama, che lo danneggia, che lo squilibra. Il rifiuto è su tutti i livelli, dal primo impatto con l’apparato digerente che ne percepisce subito la pesantezza, l’acidità, la manipolazione, la scarsa freschezza, fino alla reazione dei singoli organi interni, colpiti dal cibo sbagliato che oltre ad esprimere dolore con i loro lamenti, seppur flebili, rimandano il loro eco di sofferenza sulle parti esterne a loro collegate.
E per ognuno la risposta è diversa e personale. Nel mio caso l’eccesso di formaggio fortemente salato attacca i miei reni e mi provoca un leggero dolore interno e sull’esterno il gonfiore e il fischio alle orecchie. L’eccesso di cane mi fa leggermente infiammare le gengive.
I messaggi che il corpo mi manda in modo veloce ed immediato, svolgono un ruolo straordinario di autodifesa, di sentinella incaricata di mantenere lo status quo, l’equilibrio raggiunto.
Dall’altro canto quando il corpo viene maltrattato ripetutamente avviene il contrario. Quando non si crea il legame, il feeling, il corpo si chiude, non parla, non comunica, chiude il rapporto, come del resto spesso accade ad un amico.
Si rassegna, si assuefà, si adatta e cerca di resistere, di sopravvivere, di mantenere finché può un equilibrio, non senza profonde sofferenze non solo fisiche.
È lo stato di molte persone, perpetuato per anni e aggravato dal fatto di non poter invertire la rotta non avendo le conoscenze e la consapevolezza per farlo.
Tale stato può portare a diversi epiloghi:
- L’urlo del corpo è così forte che alla fine diventa impossibile ignorarlo e avvengono le conversioni, le illuminazioni, le riconciliazioni con il proprio corpo e con il cibo che spesso vanno di pari passo con rivoluzioni e cambiamenti globali nella vita dell’individuo.
- L’urlo è sordo e sempre più fioco fino alla fine, che arriva inevitabilmente inaspettata. Dopo anni di apparente benessere, il nostro corpo cede insieme al nostro essere e subentra la malattia e a volte la morte. Gli ospedali sono tristemente pieni di individui appartenenti a tale categoria che spesso soffrono e muoiono senza sapere il perché.
Tutto questo porta in generale ad un chiaro senso di malessere diffuso che ha molto di fisico, avendo intaccato l’equilibrio esistente con una “violenza” che la nuova sensibilità rifiuta con forza, ma che ha molto anche di emotivo, per il mancato feeling, per “il conflitto” con il nostro amico di viaggio.
In tale nuova lettura del cibo è chiaro come si vada ben oltre le componenti chimiche per arrivare a valutare gli elementi energetici del cibo in modo raffinato. Si considera non solo il fatto che il cibo sia locale, stagionale, fresco e integro, ma anche e soprattutto come gli alimenti si combinano tra di loro e quale è il loro percorso di realizzazione.
Diventa essenziale che la frutta sia maturata con il sole e non in modo artificiale perché è l’energia del sole che ci arriva attraverso il frutto. Diventa essenziale che gli animali vivano liberi e finiscano la loro vita in modo adeguato, che vivano bene, e che muoiano bene, altrimenti il loro stress e le tossine che ne derivano saranno parte dell’energia di cui ci alimenteremo e ne saremo negativamente influenzati.
Da tale nuovo angolo visuale il mondo cambia, e tanti aspetti nascosti diventano non solo visibili ma enormemente importanti.
CIBO PER LA MENTE E IL CUORE - 56
“La vita è una combinazione di pasta e magia” (Federico Fellini)
Il cibo come ogni amico e compagno di viaggio che si rispetti, non parla solo al corpo ma anche alla mente e al cuore. Il pensiero e l’affettività non sono localizzati solo in un preciso punto, ma presenti in ogni singola cellula, che viene nutrita ogni giorno con il cibo e la sua energia.
In tal senso non c’è niente di più vero dell’espressione “mangi ciò che sei e sei ciò che mangi”, il cibo diventa strumento per direzionare la nostra vita, per supportarci verso l’autorealizzazione con tutti i livelli del nostro essere.
Con il cibo più vicino alle nostre aspirazioni, ai nostri sentimenti, enfatizziamo ciò che siamo. Se siamo un meditativo tenderemo al vegetarismo, se siamo un operativo mangeremo cereali integrali o proteine animali.
Il nostro essere nel suo insieme, tende a consumare ciò che gli dà continuità, ciò che è vicino al suo sentire con l’apporto di ogni giorno.
Conoscersi e trovare il proprio equilibrio alimentare significa nutrire cuore e mente in modo corretto e di conseguenza vivere meglio.
E ciò è tanto più evidente nel momento in cui necessiti interiormente di un cambiamento forte, di voltare pagina, di dare una diversa direzione. Tali cambiamenti spesso si abbinano ad un cambiamento nel modo di alimentarsi.
La nuova persona che emerge richiede un cibo diverso che possa allo stesso tempo interpretare e rappresentare il cambiamento.
La nuova alimentazione, coerente con il proprio sentire, diventa il miglior “coach”, la miglior garanzia di successo, ti sta vicino e ti nutre di ciò che hai bisogno per affrontare un processo spesso non facile, ne amplifica gli effetti.
Ogni semplice cibo che mangiamo impatta sul nostro essere nel suo insieme, contribuendo in modo decisivo a renderci persone diverse. Influenza i nostri pensieri e la loro direzione, il nostro stato d’animo e la nostra affettività, il fatto se siamo calmi o profondamente irritabili. Per molti questo ruolo svolto dal cibo potrà sembrare eccessivo ma è solo una questione di conoscenza e di sensibilità, di entrata in contatto con ciò che siamo.
Ci sono altri elementi di contorno, importanti per consentire al cibo di parlare alla nostra mente e la nostro cuore di creare un rapporto sano e amichevole:
- Il luogo dove lo mangiamo, di corsa seduti in macchina in logica drive o seduti all’ombra di un gazebo con vista mare?
- Il modo in cui lo mangiamo che si collega strettamente al nostro stato d’animo, siamo sereni o stressati, ci prendiamo il tempo di masticare e degustare o andiamo di fretta e dobbiamo solo consumare o deglutire.
- Con chi lo mangiamo, si in buona compagnia delle persone che amiamo, il cibo diventa una condivisione, un momento di gioia da ricordare. Oppure siamo tra estranei o magari tra persone ostili e non vediamo l’ora che quel pasto finisca per andarcene? Sono tutti elementi molto importanti rispetto all’attenzione al nostro rapporto con il cibo.
Se lavoriamo in tale direzione il nostro essere ci parlerà, ci chiederà, e il cibo sarà la risposta: mangeremo ciò che siamo o che vogliamo diventare e saremo ciò che mangiamo in un processo naturale di continuo scambio.
Una mente ben nutrita può fare la differenza e vedere il mondo in modo diverso, e ciò che la nostra mente vede e persegue con fede “rischia” di diventare la realtà.
CIBO PER L’ANIMA - 59
“La solitudine è per lo spirito ciò che il cibo è per il corpo" (Seneca – poeta e politico romano)
Se ormai la fisica quantistica ha dimostrato, in linea con il pensiero religioso, che siamo energia, che niente si crea e niente si distrugge ma tutto si trasforma, è oggi più facile poter immaginare che Dio, che l’Energia Universale che plasma e anima ogni cosa, è probabilmente non al di fuori ma dentro di noi e forse dentro ogni essere vivente.
L’anima, l’energia è il “codice segreto”, “l’algoritmo” che consente al mondo di perpetuarsi ed evolvere e che intuitivamente sembra, nelle sue manifestazioni e nei suoi piccoli “miracoli” del quotidiano, andare ben oltre il risultato di pure combinazioni e reazioni biochimiche.
Anche l’anima, come l’intelligenza e le emozioni permea il nostro essere in tutti i suoi elementi ed è quindi influenzata dal cibo.
Il benessere dell’anima è legato alla nostra capacità di collegarci e comunicare con le altre anime, con gli altri esseri viventi e con l’Essere supremo, di attingere dalla loro energia. È legato alla nostra percezione dell’universo, alla nostra fiducia nei suoi meccanismi, alla nostra percezione del significato di ogni essere vivente, al rispetto del valore dell’esistenza in tutte le sue forme.
Il nostro modo di mangiare è un forte specchio del nostro approccio verso il creato, come del resto il cibo può esaltare o deprimere questo livello di sensibilità.
È con l’anima che percepiamo tali livelli dell’essere, relazionandoci in modo diverso con tutto ciò che ci circondo e questo ha un profondo impatto proprio sul nostro “stato d’animo”.
L’anima si alimenta di contemplazione ma anche di quotidianità, nel percorso esistenziale, dove ci sono dei momenti importanti, delle pietre miliari.
Pensiamo al valore del latte materno e del nutrimento anche spirituale che la mamma ci ha trasmesso. Non ne abbiamo memoria consapevole ma la nostra anima sa quanto è stato importante, sa che senza quella spinta iniziale saremmo stati diversi. Non ricordiamo il sapore, non ricordiamo il calore ma la nostra anima ricorda, la nostra anima sa.
Pensiamo ai momenti di gioia in famiglia, quando tutti seduti intorno a quel tavolo con quell’atmosfera carica di ascolto, di attenzione, di amore, consumavamo il cibo fatto con grande cura dalla mamma. Quel cibo, quel momento ha nutrito la nostra anima e non possiamo dimenticarlo.
E se pensiamo ai pasti preparati con lunghi rituali nei momenti di festa per essere consumati insieme, magari dopo una celebrazione religiosa, come naturale passaggio, come patto di alleanza tra gli uomini e Dio, come la festa dopo la festa, come rinnovo dell’atto di fede. Abbiamo nutrito l’anima con senso di appartenenza e continuità.
Per arrivare al piatto di pasta che mangi con il tuo amico del cuore dividendolo in due con gli ultimi 5 euro che vi sono rimasti oltre al biglietto del treno per tornare a casa e che prolunga l’ultimo atto di uno stupendo momento di condivisione. Quel cibo accomuna anche due anime, non stai condividendo cibo, stai condividendo due vissuti, ti stai nutrendo di energia in senso ampio.
E un bel cucchiaio di cioccolata spalmabile in un momento di tristezza, che tra l’altro ci ricorda le gioie bambine, non è una cura non tanto per il nostro palato ma per la nostra anima? Non è un rituale per dire: ora voglio prendermi cura un attimo, darmi una sosta e riprendere poi il quotidiano, voglio “addolcire” la mia anima?
CIBO E FELICITÀ - 62
“Tutta la storia umana attesta che la felicità dell’uomo, peccatore affamato, da quando Eva mangiò il pomo, dipende molto dal pranzo” (George Gordon Byron)
Se mangi in modo equilibrato mescolando in modo saggio il tuo cibo sulla base dei 4 principi fondamentali:
- Cibo locale
- Cibo stagionale
- Cbro Integrale
- Cibo fresco
Il tuo corpo ne trarrà un chiaro beneficio.
Se conosci il valore qualitativo del cibo e la sua valenza energetica e lo mixi in modo oculato, il tuo corpo si abitua e affina la sua sensibilità e inizia a dialogare con te in modo sempre più intimo, più attento. Allora potrai iniziare a nutrire alche il tuo cuore e la tua mente, potrai usarlo per amplificare la tua forza o il tuo coraggio, per supportare la tua gioia o curare le malattie, sarà uno strumento nelle tue mani, un importante alleato.
Come il controllo della mente può controllare il nostro destino, il controllo del cibo può controllare la nostra salute
Se conosci il valore dell’ambiente che ci circonda e ci entri in sintonia, apprezzi tutti gli esseri viventi e li rispetti.
Se entri in sintonia con il tuo essere interiore, e lo colleghi all’ Essere supremo, all’energia universale, aprendo la tua anima in ascolto di altre anime, ciò diventa il tuo riferimento anche rispetto a ciò che mangi.
Se recuperi attraverso il cibo il tuo spirito bambino, il valore dei ricordi, degli affetti, delle tradizioni, delle feste, dei rituali, sei in grado di dare nutrimento ulteriore alla tua anima.
Se trovi simmetria tra corpo, cuore, mente e anima puoi dire con serenità di essere felice. La felicità non è fatta di attimi, la felicità è un percorso, è una conquista di bellezza e armonia dentro e, di conseguenza, fuori di noi.
Il cibo fa la felicità! il cibo è uno degli strumenti essenziali del percorso di felicità e allo stesso tempo uno dei compagni più importanti nel meraviglioso cammino della vita.
Il cibo arricchisce i nostri momenti più significativi, è ciò che addolcisce i piccoli attimi di meraviglia: una tazza di cioccolata in una sera fredda d’inverno con tuo figlio per un momento di intimo dialogo, un bicchiere di brachetto al tramonto sul lago con la tua amata per un momento di dolce complicità, il dolce della tua festa di compleanno con tutti i tuoi amici intorno a te, il pranzo di natale anche quest’anno con tutta la tua famiglia, una sorsata di acqua fresca alla fonte in montagna dopo 4 ore di camminata, lo sfilatino fresco di pane e mortadella ancora profumata nel momento della ricreazione a scuola mentre scherzi con i tuoi amici, un piatto di pasta fumante fatta in casa al tartufo dopo una mattina di lavoro, un tiramisù che tira veramente su, non meno di un cucchiaio di nutella mangiata di nascosto dalla mamma lasciando il cucchiaio sporco sotto il letto.
Tutto ciò, non sono altro che bellissime iniezioni di felicità? E facendo un’indigestione di felicità allineando il nostro essere, si osserva un’altra meraviglia.
I diversi livelli si compensano a vicenda, arrivano uno in soccorso dell’altro: se anche io mangio un cibo non del tutto sano ma all’interno di un momento di felicità, di comunione con gli amici o di un rituale importante in famiglia il mio corpo lo accoglie con gioia e mitiga con il cuore, la mente e l’anima il potenziale negativo sull’effetto sul corpo.
È per questo che dobbiamo avere un nostro rigore, una nostra linea di condotta consapevole ma essere in grado anche di trasgredire, di concederci dei momenti di leggerezza, di piacere e di nutrimento del cuore e dell’anima perché il cibo non diventi una cura ma sia sempre una gioia.
È proprio per questo che deve essere vario e colorato e non ripetitivo ed incolore. Deve solleticare le nostre emozioni e la nostra immaginazione, deve arricchire la nostra vita e non renderla triste e ripetitiva.
La felicità si associa facilmente alla bellezza e anche il cibo deve essere bello, deve essere accattivante, devi farsi desiderare.
Il “mangiare con gli occhi” non è altro che la ricerca di bellezza in ciò che deve essere introdotto nel nostro corpo, che deve entrare a far parte di noi, che deve renderci più “belli”. L’appetibilità del cibo ci prepara al suo consumo, diventa tutt’uno con il gusto fino al punto di farci percepire diversi cibi uguali a seconda che siano ben presentati o al contrario presentati senza cura. La bellezza del cibo nutre la mente, il cuore e l’anima.
La bellezza del cibo non significa mele gonfie e perfette, alimenti ben confezionati e fosforescenti, è qualcosa legato alla qualità vera del cibo, che non rimane inosservata, che sul piatto esprime energia e freschezza contagiose, amore con cui è stato cucinato, cura con cui viene presentato armonizzando gusto, forme e colori. Il cibo diventa arte e in quanto tale bellezza senza tempo.
Siamo un tutto unico, un essere eccezionale collegato con l’ambiente e l’universo a livello fisico, energetico, affettivo e spirituale, se ci mettiamo in ascolto e in sintonia, se ricerchiamo la bellezza, possiamo incontrare la felicità con estrema naturalezza, ci scivoleremo dentro semplicemente mangiando ogni giorno il nostro cibo, svolgendo con amore il nostro compito.
LA MIA VITA E IL CIBO - 66
“Impara a cucinare, prova nuove ricette, impara dai tuoi errori, non avere paura, ma soprattutto divertiti” (Julia Child)
Sono nato da una famiglia della classe media, mia madre insegnante e mio padre funzionario dello stato. Il sogno della mia famiglia era quello di una bella casa in un quartiere di nuova costruzione piena di mobili in stile, tappeti persiani ed elettrodomestici di ultima generazione, vacanze assicurate tutti gli anni, pranzi nei ristoranti migliori per le ricorrenze, due auto e la pelliccia di visone per mia madre.
In termini di cibo il concetto era chiaro, si voleva godere, senza eccessi, della nuova ondata di modernità e non tornare nemmeno con il pensiero (se non in momenti di nostalgica memoria) a quelle che erano state, anche se in fondo minime, rispetto ad altri, le rinunce e le “economie” dell’infanzia.
Alla fine degli anni sessanta i negozi iniziavano a popolarsi di nuovi prodotti, nascevano i primi minimarket, con in potenza al loro interno già il concetto del grande avvento del supermercato.
Erano gli anni in cui velocemente, sulle tavole delle famiglie, i principi nutritivi della civiltà contadina con i suoi prodotti tradizionali, venivano rapidamente sostituiti dai prodotti del minimarket associati ad un marchio.
Anche nella mia famiglia c’era voglia di novità e tutto ciò che era locale, integrale, stagionale e fresco veniva visto con un duplice occhio:
- Da un lato era qualcosa di vecchio, di superato, di appartenente ad un passato di cui si voleva assolutamente superare la parte associata alla scarsità.
- Da un lato era un qualcosa di profondamente autentico, che creava nostalgia e ricordi ma che, nel passaggio dalla campagna alla vita in città, si era persa l’opportunità di immediata fruizione. I prodotti che si trovavano in città non erano considerati autentici e quindi ad essi si preferiva qualcosa di nuovo, che garantiva almeno nuove scoperte, nuove sensazioni e sicuramente una gestione più facile e veloce per mia madre.
Il mio frigorifero era sempre pieno e non mancavano mai alcuni cibi di cui eravamo tutti piuttosto ghiotti: dai biscotti al cioccolato, alle merendine buondì e fiesta, dai budini della Danone, alle sottilette Kraft ai meravigliosi cornetti Algida e alla altrettanto meravigliosa Nutella.
E poi chiaramente formaggi morbidi, dalle caciotte alla robiola, e carne di tutti i tipi che non doveva mai mancare e il latte, riproposto caldo con i biscotti tutte le mattine, come un passaggio obbligato prima di andare a scuola.
Insieme alla presenza di verdura e soprattutto di frutta dal sapore ogni anno sempre più lontano da quello dei pomodori presi in campagna da mio zio in Toscana quando ero piccolo, dalle forme irregolari, la polpa consistente e il sapore che, unito ad un filo di olio e sale ti trasmetteva tutta l’energia del sole che lo aveva maturato, questi erano i cibi che avevo difronte e mangiavo senza pormi il problema se fossero “giusti” o meno.
Ogni giorno a pranzo e a cena veniva preparato un pasto completo fatto di pasta, carne o pesce o formaggio, verdure, frutta e molto spesso anche il dolce, come giusto premio all’impegno del quotidiano.
Il latte mi ha sempre disturbato e mi sono velocemente svincolato a colazione, passando al pane e affettati, mi è sempre piaciuto di più il salato, alternato a qualche fetta di pane con la marmellata, meglio quella di ciliegie oppure quella che passava il convento.
Adoravo i formaggi, meno i salumi, la verdura non era il mio forte, ma ne mangiavo un po' soprattutto di cotta.
La carne non mi ha mai entusiasmato e quei pezzi di fegato o di fettine piatte e fine cotte all’olio o alla pizzaiola, con il tempo, erano diventate una specie di incubo. Diverso il pollo arrosto cotto allo spiedo da mio padre (decisamente più dotato di mia madre ai fornelli) o le braciole e le salsicce di maiale cotte sulla gratella direttamente sul camino.
La pasta, da buon italiano, era la base indiscussa e ciò che ti levava sicuramente la fame, ma la mia vera passione erano i dolci.
Gelati in inverno ed in estate, budini di tutti i tipi, merendine a scuola e nel pomeriggio con Fiesta e Buondì Motta al cioccolato in pool position, cioccolatini Perugina, paste fresche alla crema o alla panna tutte le domeniche a pranzo per rendere diverso un giorno di festa. Avevo perfino, intorno ai 13 anni, imparato dalla mamma di un amico a fare da solo il tiramisù per soddisfare la mia voglia di dolce.
Mia madre non era un’abile cuoca e soprattutto non amava cucinare. Mio padre era più bravo di lei e da tutti riconosciuto tale e piuttosto esigente e tavola. Questo metteva mia madre da un lato in tensione, come se dovesse sempre fare una performance per essere apprezzata e sfuggire ai commenti, dall’altro provocava l’effetto opposto, cadeva ogni tensione e la cucina diventava un gesto ripetitivo e vuoto, un dovere da compiere ogni giorno, con fatica insieme a molti altri.
È chiaro che questo duplice stato d’animo si riflettesse sul risultato finale, che si traduceva in pasti accettabili, ma preparati senza amore.
Il momento del pasto era quello in cui la famiglia si riuniva ed era spesso caratterizzato da tensioni e discussioni tra il papà e la mamma su questioni di routine o di principio. Non era il momento ideale per affrontarle, non erano certo facilmente “digeribili” ma era il loro cliché, nemmeno programmato: quando si sedevano a tavola venivano fuori in modo naturale.
Ciò rendeva per tutti il pasto meno gradevole, in assenza di quella serenità e condivisione che nutre al di là del cibo, e sicuramente più veloce, con la voglia di allontanarsi da tensioni indesiderate e spesso ripetitive.
Nel contesto descritto, dall’infanzia fino all’adolescenza ho sviluppato un mio modello alimentare fatto di pasta, poca carne, parecchi formaggi, molto pane e molta frutta e dolce finale a tavola. Colazione scarsa e parecchi pasti intermedi fatti di “snack” rigorosamente dolci tra nutella, cioccolatini, biscotti sempre al cioccolato, gelati e similari.
Questo richiamo forte di dolce, che probabilmente aveva a che fare anche con qualcosa di affettivo, unito a formaggi e frutta non si poteva certo dire troppo equilibrato, soprattutto da punto di vista energetico.
E quando arrivò il momento di crescere e di allineare tutti i miei livelli di sensibilità, quando iniziai la mia vita affettiva esterna, quando iniziai ad interrogarmi sulla vita e la morte, questo squilibrio iniziò a diventare un certo ostacolo. Non ne ero consapevole ma la mia debolezza interiore, causata anche da anni di cibo non corretto, veniva enfatizzata ora più che mai dal perseguire quella dieta: ero veramente ciò che mangiavo (gelati, dolci e formaggi) e continuavo a mangiare ciò che ero.
Unita ai processi tipici dell’età adolescenziale questa dinamica mi portò, da ragazzo apparentemente modello: educato, equilibrato, intelligente, bravo a scuola e performante nello sport, a sperimentare un disagio interiore che si manifestò con due fenomeni a me nuovi e decisamente impattanti:
- La perdita del sonno. Inizia a soffrire di insonnia e a passare le notti a girami da una parte e dall’altra attendendo che arrivasse la luce. Ciò mi causava uno stato di permanente stanchezza a cui mi ero rapidamente abituato, il mio organismo si era ritarato adattandosi a tale inattesa carenza di riposo ma sicuramente non senza stress e sofferenza.
- Il sopravvenire di continui disturbi muscolari. Giocavo a calcio ad un buon livello e arrivato a 18 anni ero nella fase di maturazione e massimo rendimento. Fino ad allora avevo avuto pochissimi infortuni che invece iniziarono ad arrivare con una certa frequenza, fino al sopraggiungere di uno strappo all’adduttore frontale della coscia destra che non riusciva a guarire. Si era creata una calcificazione che non si scioglieva e finita una fase di ultrasuoni e riposo, appena tornavo a scattare si riapriva la lesione.
La diminuita attività sportiva, causata dagli infortuni e dalla stanchezza, aveva portato la mia alimentazione sempre di più verso la frutta. Siccome tendevo ad aumentare di peso e questo non mi piaceva, avevo eliminato il pasto serale che si era trasformato in un cesto abbondante di frutta e questo sicuramente non mi aiutava a superare il mio squilibrio.
Erano segnali chiari di una mancanza di armonia al mio interno e al mio esterno che riguardava un po' tutto e sicuramente anche il cibo con cui non avevo un rapporto sano e che a sua volta non mi aiutava certo a stare meglio.
Non penso che i miei genitori ricordino quel periodo come particolare per me, tutto appariva in fondo piuttosto normale e la mia vita procedeva, la mia mente e il mio corpo facevano di tutto per procedere in “modo normale”.
Il medico di casa, a cui in occasione di visita legata ad un’influenza, avevo accennato senza troppa enfasi, non aveva spiegazioni particolari, perché all’apparenza non sembrava che io stessi male ma in realtà c’era una sorda sofferenza. Era il momento di diventare grande, di fare il punto, di liberarsi delle zavorre e volare e non era un processo immediato.
Il mio corpo, il mio cuore, la mia mente e la mia anima reclamavano attenzione e avevano bisogno di collegarsi.
Non avevo ricevuto un’educazione alimentare di nessun tipo se non le generiche affermazioni di mio padre per cui era importante mangiare un po' di tutto, mi trovavo in un punto di svolta ma non sapevo da dove partire, non avevo assolutamente la chiave per aprire la prima porta di un nuovo percorso. Questo stato di “faticoso limbo” è durato oltre due anni e poteva forse durare molto di più o attenuarsi o sfociare in una malattia.
Non avevo chiave di volta, ma avevo una mia tenacia e sapevo che avrei trovato una soluzione prima o poi e ciò accadde. La mia ricerca, più interiore che razionale, pose l’attenzione su un cartello appeso in una via secondaria del centro storico.
Stampato in modo abbastanza artigianale e mezzo staccato dalla la pioggia, il cartello invitava a partecipare ad un corso di Yoga. Era il 1986 e per me, vissuto tra i banchi di ragioneria, i campi di calcio e la piazzetta del mio quartiere con gli amici, seppur arricchito da numerosi viaggi e vacanze, la parola Yoga evocava qualcosa di esotico e affascinate, ma non sapevo in realtà di che cosa si trattasse, ma nonostante ciò in quell’occasione, esercitò su di me una forte attrazione.
Memorizzai quell’indirizzo e pochi giorni dopo ero alla porta di quel centro di “attività alternative” dove c’era un piccolo cartello con scritto “Il Chicco integrale”. Al suono del campanello aprì con una certa solerzia ed una certa energia un uomo esile e sorridente, Giuliano che, dopo avermi dato il benvenuto e essersi soffermato per un attimo con lo sguardo sul mio viso, senza remore e con un approccio molto diretto, considerando che non mi aveva mai visto prima, mi disse:
“Mi sembra che tu sia una persona che eccede con la frutta e questo non è sano per te”.
Questa frase a bruciapelo, pronunciata da uno sconosciuto, e allo stesso tempo così esatta, mi risuonò di grande verità e mi creò una grande curiosità.
Dopo un primo attimo di imbarazzo risposi:
“Come fai a dirlo”?
“Facile, si vede in modo evidente dal tuo viso, dai tuoi lineamenti?” Ribatté.
“Che cosa vuoi dire”? Continuai io con curiosità crescente come chi ha la sensazione di avere e portata di mano un’informazione molto importante e non vuole perderla.
“Ho approfondito degli studi di diagnosi facciale e vedo nei tuoi lineamenti, nei tuoi occhi la frutta. Seppur in sé un alimento importante, non ne dobbiamo abusare specialmente in inverno, ci raffredda, ci indebolisce, acidifica il fegato che controlla i nostri muscoli”.
Alla parola muscoli gli chiesi d’impatto: “Io gioco a calcio e in questo periodo ho molti problemi con le mie gambe e in effetti la sera mangio soltanto frutta”
“Ecco, vedi?” mi disse Giuliano con fare soddisfatto.
“Tutto torna. Devi smettere completamente per 15 giorni di mangiare frutta e vedrai che i problemi muscolari scompariranno”.
Il dialogo fini così, senza troppe spiegazioni scientifiche, fu così breve come illuminante. Non gli chiesi altro e profondamente colpito, lo ringraziai ed andai via. Ero andato lì per lo yoga (di cui non gli chiesi niente) e avevo ricevuto ben altro. Tornai a casa con quel senso di chi ha scoperto una verità inaspettata e ha una voglia matta di metterla in pratica.
Quel dialogo istantaneo, quella “intuizione casuale” per la quale sarò sempre grato a Giuliano, diventato poi negli anni persona amica, nonostante la differenza di età, ha accesso in me la miccia del cambiamento.
Non mangiai per 15 giorni la frutta e i miei problemi muscolari scomparirono, superai la calcificazione e tornai a giocare in tempi brevi. Avevo sperimentato con successo sulla mia pelle un primo importante cambiamento.
Tornai al Chicco Integrale e Giuliano mi consiglio alcuni libri sul mangiare sano in base ai principi della macrobiotica. La mia fame di conoscenza e di evoluzione era grande e li divorai in pochi giorni iniziando a crearmi una mia prima cultura alimentare, molto diversa da quella che non avevo. La cosa che da subito mi aveva colpito delle mie nuove letture era il principio “mangi ciò che sei e sei ciò che mangi”, mi aveva aperto ad una nuova visione del cibo, non chimica ma energetica non solo legata al corpo, ma anche alla mente e al cuore.
Erano per me principi nuovi ed affascinanti che mi risuonavano positivamente e che ingenerarono in me un sentimento molto prezioso, la voglia di conoscere e soprattutto di sperimentare direttamente come già avevo fatto con successo. Non volevo leggere nuove cose, volevo applicarle, vedere i risultati. Il cibo mi stava guidando verso quella presa di consapevolezza, di responsabilità, di capacità di decidere di cui avevo bisogno per vivere.
Venivo da anni di profondo squilibrio, ero pieno di zucchero raffinato fino alla punta dei capelli che già stavo perdendo, e dovevo decisamente invertire la rotta. Come in ogni rivoluzione ad un eccesso perpetuato, all’inizio, deve corrispondere un eccesso di segno opposto che dia un chiaro messaggio di cambiamento. Avevo scoperto una nuova via al cibo che si ispirava ai principi del cibo sano ed equilibrato che tra l’altro era in fondo in armonia con i valori che avevo dentro.
Da super goloso iniziai ad essere un macrobiotico seppur con qualche trasgressione.
La mia famiglia accettò con estrema tolleranza e un po' di sano umorismo. Seppur non comprendendone le ragioni profonde non fui in nessun modo ostacolato e potei iniziare ad introdurre e cucinare da solo, a parte, cibi nuovi.
Aver cambiato in modo repentino e radicale il mio cibo, partendo da un chiaro risultato concreto, mi aveva dato una forte duplice consapevolezza, aprendomi ad una nuova visone di me e del mondo:
- Il cibo aveva una forte influenza sulla mia salute e, cosa più importante, potevo direzionarlo in modo consapevole verso tale obiettivo
- Avevo cambiato il mio modo di mangiare fino a 20 anni in poco tempo e senza troppi problemi, potevo cambiare anche tutti gli altri aspetti della mia vita se lo volevo veramente, l’espressione “volere è potere” iniziava ad assumere un certo significato anche per me.
Giuliano e le sue poche parole erano quello che cercavo e il “destino” me lo aveva fatto incontrare, avevo ora una nuova opportunità di cambiamento globale e non potevo mancarla. Il cibo era stato il punto di partenza ed era diventato il mio profondo alleato. Ora che lo avevo ritrovato, lo avevo riscoperto in veste nuova, dovevo conoscerlo sempre di più, sperimentare e usarlo con efficacia, ed era proprio quello che volevo fare.
In soli due mesi di rinnovata alimentazione, unita ad una nuova energia, uscii completamente dal limbo dell’insonnia come per incanto.
Da quel periodo cruciale, che ha segnato un vero e proprio punto di svola non solo alimentare ma decisamente esistenziale, ho iniziato ad avere con il cibo un rapporto completamente diverso, a consideralo come un compagno di viaggio, primo custode insieme a me della mia salute. Ho sostituito il piacere di breve termine, quello di un doppio tiramisù, che non era un’eccezione alla fine delle mie cene al ristorante, a quello del sentirmi bene a lungo termine, di ricercare non il piacere ma la felicità, a riscoprire il gusto discreto ma pieno di una zuppa di ceci di cui prima non sentivo nemmeno il sapore.
Ho mangiato sulla base di principi della macrobiotica per 6 anni, poi ho vissuto all’estero per un paio di anni mutando rispetto al clima e ai ritmi del quotidiano il mio cibo tornato più “tradizionale”.
Poi ho mangiato solo cibi vegetali per anni, poi sono tronato a mangiare la carne. Ho eliminato latte e formaggi per anni per poi tornarli a mangiare in piccola parte e poi eliminarli di nuovo.
Da quando sono sposato con Monia è lei l’artefice, quella che mi regala amore attraverso i fornelli ma anche diverse calorie, che sempre per amore, non posso rifiutare.
È stato un percorso di sperimentazione continua, un “laboratorio continuo” come del resto è la vita in tutti i suoi aspetti, dove da un lato ho capito l’effetto del cibo sul mio corpo, la mia mente, il mio cuore e la mia anima e l’ho utilizzato per aiutarmi a dare alla mia vita la direzione che volevo. Se avevo bisogno di essere più meditativo e creativo diminuivo il cibo yang, se avevo bisogno di essere più attivo e aggredire la vita usavo cibi yang.
E ho assistito all’eccezionale cambiamento che il corpo subisce quando tu inizi ad ascoltarlo, anche lui si apre, si crea un dialogo, ti dà ogni giorno dei messaggi, sempre più raffinati, ti fa capire i suoi bisogni e tu hai il piacere con tutte le tue parti di soddisfarlo, di entrare in linea con lui.
Se prima assorbiva i due tiramisù soffrendo ma senza protestare, era rassegnato a tale tipo di aggressione, ora se ne mangio anche uno mi dice bonariamente “attenzione, non è il top, lo so che lo zucchero di fa felice e
che questo dolce è stramaledettamente buono, ma non esagerare, tieni conto anche di me e soprattutto di te”.
È grazie a questo dialogo, a questo cammino iniziato tanti anni fa e fatto non di teorie, di movimenti di pensiero o di mode o di diete o di etichette, ma di esperienza quotidiana, di comuni di avventure , che grazie al cibo e con il cibo, con l’ambiente da cui proviene, con gli altri esseri umani, con ciò che rappresenta in termini sociali, simbolici e affettivi ho trovato una profonda armonia che si può chiamare felicità e che è fatta di regole e del piacere di poterle superare con dolci trasgressioni, di colore e di gioia del mangiare e del vivere.
È un’armonia che ogni giorno devo nutrire e devo curare, è facile tornare indietro. Ti ho voluto raccontare brevemente la mia storia con il cibo non perché ci sia qualcosa di eccezionale, è una storia semplice ma dove piccoli miracoli sono avvenuti, e spero ti possano essere di ispirazione.
Provo una profonda partecipazione alla sofferenza degli altri, e provo una profonda sofferenza nel vedere tanti di noi che soffrono perché non riescono a dialogare con il proprio essere e con il proprio cibo, a metterli in comunicazione per ritrovare armonia, salute e felicità mentre la vita passa veloce e inesorabile
Spero che queste righe possano essere un contributo, un piccolo granello di sabbia in questa direzione, perché il cibo fa la felicità ed è una meraviglia che tutti abbiamo il diritto di scoprire. Quando mangi un buon cibo e sei felice anche se non sai perché, sei già sulla strada giusta.
Un grazie a te che sei arrivato fino alla fine, spero che la tua curiosità sia ricca di frutti. Se hai apprezzato questo ebook mi farebbe piacere una tua recensione in modo che anche altri, come te lo possano leggere.
Se vuoi comunicare con me e mi farebbe molto piacere puoi contattarmi alla mail che trovi sul mio sito www.cioccolatinidifelicita.it.
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